Introduzione al volume “Cattaneo, il sogno dell’Italia federale e dell’autonomia dei popoli” di Romano Bracalini
L’ITALIA DELLE CENTO CITTÀ
Carlo Cattaneo non appartiene all’oleografia risorgimentale e non entra nella galleria dei «padri della patria». A differenza di Garibaldi e Mazzini, che pur in contrasto con i moderati contribuirono alla formazione dello stato unitario monarchico, rifiutò ogni ruolo quando capì che nessuna delle sue idee poteva essere accolta.
Uomo schivo e sdegnoso del podio, non ebbe la popolarità di Garibaldi, né il fluido misterioso di Mazzini, né il potere di un politico geniale come Cavour ma, in anticipo su tutti, intravide i limiti di un sistema che dava autorità ai prefetti e poca libertà ai cittadini. Lavorò allora per porre l’individuo al centro della società affermando, in polemica con la concezione socialista, che lo stato doveva esistere per il cittadino e non viceversa. Con eguale forza e convinzione si oppose sia al principio unitario mazziniano sia all’indirizzo burocratico e autoritario della monarchia sabauda. Fu contemporaneamente contro Garibaldi e contro Cavour. Fu contro lo stato accentratore che soffocava le libertà e le autonomie locali: l’Italia delle Cento Città non era la Francia, con un’unica grande capitale che comanda e l’immensa provincia che ubbidisce.
Sebbene il moto risorgimentale si fosse svolto essenzialmente al Centro-Nord e Cattaneo, come Mazzini e Garibaldi, fosse settentrionale, nel nuovo stato unitario le regole parvero invertirsi e si assistette a una riedizione del regno dei Borboni. La nuova classe dirigente succeduta alla onesta ed efficiente burocrazia piemontese rappresentava, dice Piero Gobetti, la piccola e media borghesia meridionale, storicamente e culturalmente impreparata ai compiti di governo liberale moderno, concepito e voluto dalle avanguardie politiche ed economiche del Nord.
Cattaneo, prosegue Gobetti, non avversò l’unità ma l’illusione di risolvere col mito dell’unità tutti i problemi che si potevano intendere invece nelle specifiche realtà regionali. Pensava infatti che solo il sistema di autonomie, vanto della migliore tradizione italiana, dagli etruschi ai Comuni, avrebbe permesso l’esercizio diretto del potere e il controllo della cosa pubblica. Le sue idee non potevano piacere alla monarchia, centralista per natura, ma non piacquero nemmeno a Mazzini che, memore delle antiche lotte di campanile, scorgeva nella federazione un fattore di debolezza e di permanente divisione.
Prima ancora di veder fallire il suo progetto, Cattaneo preferì il volontario esilio piuttosto che vivere sotto la monarchia e rinunciare anche a uno solo dei suoi princìpi. Cominciò così il suo progressivo isolamento dal quale non lo ha tratto la prima repubblica, governata per quasi un cinquantennio da una oligarchia corrotta e inamovibile.
Contrariamente a Mazzini e Garibaldi, esaltati a destra e a sinistra, nessun regime osò appropriarsi della sua figura. Fu uno dei pochi grandi, dice Norberto Bobbio, che il fascismo non ebbe il coraggio di mettere sull’altare dei santi patroni. Palmiro Togliatti gli riconobbe doti di «grande scrittore giacobino», ma fu il solo riconoscimento che gli venne da quel versante. La sinistra marxista, sempre profetica, espresse generalmente giudizi supponenti e sprezzanti: «La sua è una modernità da prendersi con le molle, una originalità modesta e assai poco produttiva ai fini della democrazia moderna».1 Astiosi e risibili commenti anche a destra: «Cattaneo fu un cattivo carattere e un peggior politico. Spigolando nell’Epistolario troviamo le conferme spicciole dell’impressionante fallacia dei calcoli che ne ispirano l’azione politica».2
Dal dopoguerra in poi parecchi studiosi si sono occupati di lui, ma l’hanno fatto nell’ambito strettamente accademico e specialistico, e la scuola italiana (come la stampa e la televisione), già così deficitaria e disattenta, non si è certo distinta nella doverosa riparazione. L’attuale crisi dello stato centralista ha propiziato il recupero del suo pensiero e rilanciato, dopo il terrore ideologico e lo statalismo fallimentare, il principio della libertà dell’individuo e della libera impresa.
Si assiste tuttavia a una curiosa circostanza. Proprio perché la Lega ha eletto il federalismo a suo cavallo di battaglia, c’è quasi la tendenza a sconfessarlo avallando la falsa impressione che federazione (da foedus, patto d’unione) significhi secessione o disunità mentre vuol dire esattamente il contrario. Se può confortare, la stessa interessata disinformazione regnava anche ai tempi di Cattaneo e gli procurò odi e antipatie; del resto il suo carattere fiero e spigoloso non era fatto per le mezze misure. Persino nei momenti di gloria restava un solitario e un incompreso, una voce fuori del coro, l’antitesi del capopopolo così congeniale allo spirito di fazione italiano.
Del temperamento lombardo aveva le qualità e i difetti che, se confrontati con l’innata astuzia dei compatrioti, con l’ipocrita risorsa del dire e non dire, risplendevano come «rarità d’autore». Agli italiani, incapaci di opporsi come lui lo era di concedersi, non mancava di ripetere che occorrevano altre qualità per fare una nazione, occorreva anzitutto la volontà, che non riusciva a vedere così diffusa, e meno propensione al trasformismo e a voltar gabbana. Non aveva fiducia nelle rivoluzioni che si concludevano sempre con la restrizione della libertà individuale e con il rafforzamento dello stato. La sola rivoluzione che ammetteva era quella tecnologica che doveva inaugurare l’epoca del progresso umano con lo sviluppo delle ferrovie, dei trafori, delle linee di comunicazione nonché delle «scienze concrete», come la statistica, la finanza, l’economia. Certo, peccò d’eccessiva fiducia nelle «sorti progressive del capitalismo» e nei benefici effetti dello sviluppo industriale. Ma questo possiamo dirlo solo oggi.
Non attribuiva all’Italia alcuna missione speciale, nessun «primato» come pretendeva Gioberti; gli pareva anzi un paese anomalo e parecchio arretrato per aspirare a un ruolo privilegiato nel continente. Riconosceva che il principio di nazionalità affermato da Mazzini «era il fatto più eminentemente morale del secolo», ma conosceva troppo bene le dottrine antropologiche e storiche per non sapere che qualunque nazione, pur presentando qualche tratto «inconfondibilmente suo proprio, era tuttavia un’incrociatura più o meno confusa di stirpi diverse». L’osservazione era ancora più evidente se riferita alla tipologia italiana, prodotto di infiniti apporti che hanno dato luogo a una complessa e dolente psicologia e a una strana debolezza del carattere.
In ogni caso l’esperimento unitario non ha retto all’usura del tempo. Già nel 1880 Sidney Sonnino diceva: «Se i nostri liberali avessero conosciuto il paese forse non avrebbero avuto la forza di costituire l’Italia». E tuttavia fatta in qualche modo l’Italia restano ancora da fare gli italiani, mentre sussistono più che mai i piemontesi, i lombardi, i toscani, i romani, i napoletani, i siciliani, esacerbati da oltre un secolo di artificiosa e caotica convivenza.
Gli italiani sono sempre stati popoli diversi, con un diverso livello di emancipazione e di civiltà. La competizione e la guerra civile prevalevano sulla concordia. Torino era gelosa di Milano, Savona ostile a Genova, Livorno rivale di Pisa e di Firenze, Palermo diffidente di Napoli e tutte insofferenti di dover sottostare a Roma. Si parlava la stessa lingua ma non ci si capiva. Da Nord a Sud il senso civico variava (e varia) nella stessa misura che passa tra Amburgo e Il Cairo.
Consapevole di questa realtà Cattaneo pensava al modello degli Stati Uniti d’America che, compiuta la rivoluzione nazionale nel 1783, avevano saputo darsi una moderna e durevole costituzione, mentre come esempio più vicino indicava la Confederazione elvetica con la sovranità dei cantoni e la pluralità delle lingue e delle culture. L’alternativa era la discordia, la tentazione totalitaria, la guerra fratricida.
La prima edizione di questo libro risale al 1995. Da allora le idee federaliste e autonomiste, sostenute con coerenza e forza di convinzione da Carlo Cattaneo, si sono ulteriormente diffuse e ritrovano nella generale crisi dello Stato-nazione e nell’impopolarità crescente di questa Europa lontana dai cittadini nuove schiere di ammiratori e di seguaci. Cattaneo non solo ebbe l’intuito e la preveggenza di indicare nella Repubblica federale, sull’esempio della Confederazione elvetica, l’unica forma di unità possibile per un paese così variegato e difforme come l’Italia, ma nella prefigurazione degli Stati Uniti d’Europa vedeva il solo modo di sconfiggere le rivalità e gli egoismi nazionali, giungere a una pace duratura nel continente e rendere i cittadini artefici e padroni del proprio destino. Gli avessero dato retta, all’Europa sarebbero stati risparmiati tanti lutti, disastri e miserie. Siamo di nuovo davanti a un bivio storico; all’Europa i cittadini chiedono più libertà e autodeterminazione, per giungere finalmente all’Europa dei popoli vagheggiata da Cattaneo.
Il ritorno della sua fortuna coincide, infatti, con il fallimento unitario e la catastrofe dell’Europa burocratica di Bruxelles.
Cavour, Mazzini, Garibaldi sembrano personaggi lontani, confinati nel loro tempo. La modernità di Carlo Cattaneo, viceversa, non cessa d’essere fonte di ispirazione e di forza ideale. Il suo pensiero è più attuale che mai; e c’è nel pubblico una maggiore richiesta di conoscenza dell’uomo e della sua opera; per questo, l’editore ed io, abbiamo ritenuto utile riproporre ai lettori la storia della sua vita travagliata e commovente, esemplare ed eroica.
Romano Bracalini
Milano, 2014
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