di GIANNI ZORZI* – ELISA QUALIZZA**
Nel 2015 il gettito derivante dalle imposte sulle rendite finanziarie dovrebbe aver raggiunto quota 15,1 miliardi. Una cifra in ulteriore crescita rispetto ai 14,9 miliardi del 2014 ma più bassa rispetto ai 15,9 previsti all’inizio dell’anno. Lo rivela un’indagine condotta dal centro studi ImpresaLavoro, secondo il quale si conferma comunque l’escalation registrata a partire dal 2011, anno che ha dato il via a una serie di repentini aumenti su tutti i fronti delle imposte applicabili agli investimenti finanziari.
C’è di più: il lieve calo del gettito 2015 rispetto alle attese potrebbe accompagnarsi a un’ulteriore riduzione per il 2016 (e sarebbe la prima volta in tutto l’arco temporale abbracciato dello studio), tanto da far pensare a possibili contromosse del governo destinate a sfociare in nuove strette fiscali. È certo infatti che il calo di gettito non risulterebbe da un allentamento della morsa fiscale, ma esclusivamente dalla brusca riduzione dei rendimenti degli strumenti finanziari più diffusi presso il pubblico dei piccoli risparmiatori: lo scorso anno i tassi sui depositi bancari e postali sono scesi fino allo 0,50% medio, il rendimento delle obbligazioni bancarie al 3,04% e i titoli di stato all’1,19%. In base ai diversi scenari di “stress” la perdita di gettito complessiva dalle rendite finanziarie potrebbe anche superare il miliardo.
Il prelievo complessivo, comunque oggi più che raddoppiato rispetto al 2011 (quando era quantificabile in “soli” 6,9 miliardi), si compone di vari elementi, il più rilevante dei quali è determinato dall’imposta sostitutiva sui guadagni di natura finanziaria: da sola essa preme per oltre 10 miliardi di euro all’anno, in particolar modo da quando l’ultimo giro di vite (datato giugno 2014) ha portato l’aliquota standard al 26% con la sola eccezione dei titoli di Stato, la cui tassazione rimane agevolata al 12,5%. Da tale componente proviene il gettito fiscale che risulterebbe dunque maggiormente incerto per il futuro, essendo legato all’andamento dei mercati finanziari, oltre che delle politiche accomodanti della Banca centrale europea a livello di tassi d’interesse e di immissione straordinaria di liquidità nel sistema.
Un secondo elemento di tassazione per grado d’importanza nell’attuale sistema è quello dell’imposta di bollo su depositi e investimenti finanziari. Nata come balzello fisso sugli estratti conto del deposito titoli (34 euro e 20 centesimi all’anno), ha resistito come tale solo fino alla metà del 2011, quando la crisi dello spread ha portato i nostri governi a trasformarla rapidamente in una patrimoniale che colpisce in misura ora proporzionale sostanzialmente ogni strumento finanziario (ad eccezione di conti correnti, fondi pensione e alcuni tipi di polizze vita). Dopo l’ultima revisione dell’imposta (passata allo 0,2% nel 2014), il bollo sugli investimenti garantisce allo stato ben 4,1 miliardi annui: una misura decuplicata rispetto al 2011 (quando pesava solo 400 milioni) raggiungendo misure paragonabili ad altre imposte nel frattempo scomparse come la vecchia IMU sulla prima casa.
L’imposta di bollo sugli investimenti non va confusa con quella sui conti correnti, che resiste nella sua attuale configurazione sin dal 2012, quando venne introdotta l’esenzione per i conti intestati a persone fisiche che non superano i 5.000 euro di giacenza media: da questa voce lo Stato si attende ogni anno circa 600 milioni di euro.
Tra le tasse sugli strumenti finanziari va aggiunta la Tobin Tax, che colpisce in particolare le transazioni di taluni titoli sui mercati italiani, indipendentemente dal fatto che esse si concludano in guadagno oppure in perdita per l’investitore, e che frutta però soli 300 milioni di euro circa alle casse dello Stato, tanto che a più riprese ci si è chiesti se nel complesso determini complessivamente più costi per il sistema che benefici per l’erario. Considerato dunque tutto il mix di imposte su depositi e investimenti finanziari, in uno scenario di rendimenti decrescenti tenderà a prevalere sempre di più la componente patrimoniale rispetto a quella commisurata al reale reddito ricavato dai piccoli investitori. L’incidenza reale di queste imposte è stata calcolata da ImpresaLavoro per il 2015 al 33,5%, in aumento di ben due punti e mezzo rispetto all’anno precedente, quando era pari al 31%. Con risultati paradossali per chi, per esempio, continua a investire in titoli di Stato a breve termine: oltre a offrire un rendimento negativo (con interessi a carico del sottoscrittore), i Bot rimangono comunque soggetti all’imposta di bollo.
Il tax rate è ben oltre il 26% anche in tutti i casi in cui gioca a sfavore del contribuente il meccanismo spesso contorto (e ignoto ai più) che determina la compensabilità delle minusvalenze pregresse nel regime più comune del risparmio amministrato, limitandola a specifiche categorie di titoli e a particolari tipologie di redditi finanziari. Nonostante tutto, il calo dei rendimenti sui mercati del debito pubblico dovrebbe produrre a livello di bilancio soprattutto un calo della spesa per interessi sul debito (dagli 84 miliardi del 2012 ai 67 previsti per il 2016): beneficio notevolmente più grande rispetto alla flessione delle entrate sulle rendite finanziarie, ma che lo Stato potrebbe voler comunque compensare attingendo da altre fonti.
Lo spettro che aleggia spesso nella mente degli italiani è quello del prelievo forzoso sui conti correnti, alla stregua di quanto avvenuto nell’estate del 1992 per decisione del governo Amato. Ma se lo stesso 6 per mille di prelievo sui conti fosse applicato oggi, non frutterebbe che 3,3 miliardi una tantum.
Ecco dunque che potrebbe manifestarsi ben presto un nuovo giro di vite fiscale, inatteso, sul tema successioni e donazioni. Proprio di recente infatti sono emerse delle proposte d’intervento: le prime a distanza di dieci anni dalla riforma che ha reintrodotto l’imposta. In particolare si prevederebbe di raddoppiare le aliquote (triplicarle al di sopra di una certa soglia) e nel contempo abbassare le franchigie di esenzione, che rimarrebbero distinte per grado di parentela. L’imposta, che oggi frutta circa 600-700 milioni di euro l’anno, potrebbe dunque essere la prima candidata ad un ritocco. L’unica speranza, a quel punto, è che l’incremento sia soltanto un lontano parente di quelli visti sinora.
* docente di Finanza dell’impresa e dei mercati
** ricercatrice Centro studi ImpresaLavoro