Che cos’è l’8 settembre se non la metafora di un fallimento storico? La sconfitta può essere onorevole. L’8 settembre non lo fu. Il linguaggio politico ha tradotto quella data in “armistizio” che ha un sapore più gradito di “resa incondizionata” quale essa fu. Non valse la lotta partigiana ad attenuare la colpe dell’Italia. Quando a Parigi si aprì la conferenza della pace, la delegazione italiana guidata da Alcide De Gasperi si meravigliò che l’Italia venisse trattata alla stregua di tutte le altre nazioni sconfitte. Il delegato sovietico, Molotov, che nel 1939 aveva sottoscritto il patto tedesco-sovietico, fu il più spietato di tutti nel chiedere un trattamento punitivo, pur riconoscendo i meriti della Resistenza italiana per un senso di riguardo verso i compagni comunisti italiani. La sconfitta militare segnava la fine dei sogni di potenza che l’Italia aveva covato da Crispi a Mussolini. Di tutte le date che compongono la nostra storia unitaria, non c’è come l’8 settembre che le riassuma tutte nel significato più deteriore di ambiguità, doppiezza, viltà. Si può ribaltare una alleanza, ma lo si deve fare a viso aperto, con lealtà e coraggio. Invece l’Italia un’altra volta mercanteggiò, all’oscuro dei tedeschi e degli stessi italiani che credettero che la guerra fosse finita e l’annuncio pauroso e vile di Badoglio lo fece credere.
L’8 settembre è qualcosa di più di una disfatta militare. Fu l’inizio della tragedia che divise un popolo e fece dell’Italia il campo di battaglia di esercito stranieri, come tre secoli addietro. L’Italia cessava di essere uno stato indipendente e sovrano. Roma non era più capitale. Lo Stato giacobino-sabaudo, fondato nel 1861, era morto nella vergogna e nell’ignominia. All’indomani dell’8 settembre, che preparava la fuga di Pescara, il direttore del Corriere della Sera Ettore Janni onestamente scrisse: “Giorno di profonda tristezza per il popolo italiano…”. Le nostre stesse ragioni storiche e morali cancellate e sepolte sotto le rovine. Era morta “l’idea di patria” che il fascismo, abusandone fino alle estreme conseguenze, aveva reso impresentabile. La dottrina marxista ne fece un epiteto irripetibile. Lo stesso Risorgimento appariva come un insulso moto elitario borghese, antipopolare, anticattolico e antipapale, come poi ebbero modo di definirlo marxisti e cattolici dando al senso di patria il significato equivoco che ha mantenuto fino a poco tempo fa. Le polemiche intorno al centocinquantenario dell’Unità non avrebbero senso se l’idea di patria, se l’idea di nazione, fosse più forte e radicata. Ma il crollo dell’ideologia risorgimentale, ad opera di cattolici, comunisti, e di fascisti, che avevano presentato il Risorgimento come un movimento protofascista, ha condotto all’attuale crisi dell’idea di Italia: non più quella di ieri, imperialista ma debole, aggressiva ma vile; e non ancora un modello di patria onorevole che metta d’accordo tutti. C’è voluto lo spauracchio della secessione per convincere gli antichi avversari dello stato unitario, cattolici e marxisti, di dar vita a un nuovo patto nazionale trasversale contro ogni tentativo di disgregazione territoriale.
I postcomunisti in un rigurgito di patriottismo unitario hanno rivalutato la bandiera un tempo relegata nei ripostigli di cellula o quasi nascosta dietro la bandiera rossa. Naturalmente per questo inedito ruolo la sinistra si aspetta una ricompensa, anche dal campo non suo proprio. Se non che il complesso dell’8 settembre brucia ancora.
Non si costruisce nulla sulla sconfitta. La Repubblica, nata nel 1946 sulle macerie della guerra, per molti versi rappresenta la continuità storica in una diversa forma di stato. Il primo presidente provvisorio, Enrico De Nicola, era un galantuomo monarchico. Burocrazia, esercito, magistratura giurarono fedeltà alla repubblica, esattamente come avevano fatto con la monarchia. In Italia un sistema eredita l’altro. Parecchio fascismo transitò nel PCI e poco cambiava. Non si costruisce nulla di nuova senza una “rivoluzione morale”. Le molte repubbliche che si sono succedute in Francia si basano sui principi inalienabili della Rivoluzione. Quali sono le basi morali dell’attuale repubblica italiana? La Resistenza? Nel periodo clandestino i partigiani si aggiravano sulle centomila unità; dopo la liberazione divennero improvvisamente dai 600.000 ai 700.000, tutti in possesso di certificati più meno autentici, tutti più o meno compiacentemente rilasciati. Fu in ogni caso un fenomeno minoritario e di parte per costituire un principio fondativo rispettabile e condiviso. Continua a mancarci un nesso comune, un vincolo morale collettivo. Il Risorgimento fu il tentativo di pochi patrioti di dare rappresentanza e dignità a un popolo disperso.
L’8 settembre distrusse in un attimo un intero patrimonio ideale. Se la vita politica italiana è ridotta a bega di cortile, a sconcezza pubblica quale arma di ricatto, una ragione ci sarà! La Storia è un grande magazzino di oggetti perduti. Vi si trovano tutte le nostre migliori intenzioni. Così l’8 settembre, la data che più ci concerne,è diventata la metafora della debolezza italiana, della mancanza di identità collettiva e nazionale, del senso di appartenenza senza il quale non c’è popolo solidale ma assembramento, negozio, corruzione, “poussiere humaine”,polvere umana, come ci classificava Lamartine.
Il carissimo, defunto amico, Mario Silvestri ha scritto come conclusione del suo libro sulla prima guerra mondiale : ” ……….e Caporetto continua !”
Niente di più vero perchè le varie Caporetto sono scritte nel DNA italiota.
Ricordo che l’Italia ha sempre partecipato a tutte le “guerre possibili” senza vincerne una per merito proprio: