Antonio Simon Mossa affermava: “Non crediamo certo allo slogan: Sardegna nazione mancata, coniato dai rinunciatari di ogni tempo e di ogni colore”.
Era il 1967, un tempo in cui parlare di Indipendenza era davvero molto difficile, un tabù vero e proprio, una cosa perfino rischiosa per chi ne voleva assumere in prima persona la responsabilità, il carico, la portata.
A distanza di tanti anni, in questi tempi di politica approssimata del tirare a campare a colpi di spot e annunci miracolistici, in tempi di mistificazioni vergognose della realtà e della rappresentanza, conditi ad ogni occasione dalla retorica delle celebrazioni del nulla con tanto di svolazzi in pompa magna dalle frecce tricolori, perfino il gioco sull’equivoco subliminale di un cartello con su scritto “Via la Sardegna dall’italia” (con la i volutamente minuscola) potrebbe assurgere alla dignità di programma politico e di prospettiva obbligata – reale ed unica – di emancipazione del Popolo sardo.
L’indipendenza della Sardegna per impedire che la nostra Terra diventi una pattumiera di scorie nucleari, per fare un solo esempio, sarebbe fatalmente la sola risposta ad un principio di realtà delle cose e, più propriamente, ad un principio di realtà e di onestà etica nella politica e soprattutto nel nostro corpo sociale.
Una necessità non più rinviabile, insomma – l’Indipendenza della Sardegna – che è anche di sopravvivenza ed autotutela contro un sistema partitocratico e classista, sviluppatosi nel tempo auto replicandosi come fanno le infezioni virali più pericolose, e mutando semplicemente in forme diverse soltanto all’apparenza, col solo scopo di conservarsi e continuare a far danno.
Questa specie cattiva ha infettato anche la Sardegna – è sotto gli occhi di tutti – e lo ha fatto pesantemente intossicando giorno dopo giorno il nostro corpo sociale, indebolendone la capacità di impegno, la coscienza dell’identità e dei diritti, trasformando il Popolo sardo in un popolo di disoccupati e di inoccupati in balia delle false promesse degli ascari del sistema.
Un popolo che corre continuamente il rischio mortale di perdere la volontà di impegno e di iniziativa; di perdere anche le più elementari capacità di lavoro; di perdere tutti i diritti tranne quello alla carità pubblica.
Oggi più che mai, è in atto una colossale mistificazione delle cose, della realtà che ci circonda, dell’ambiente, dell’economia, della stessa rappresentanza politica.
Una classe parassitaria si è incrostata nei gangli delle istituzioni sclerotizzandole; è diventata apparato inamovibile che ruba ai poveri per donare ai ricchi – in definitiva per donare a se stessa – e trucca le carte reggendosi nei finti dualismi e nella farse delle contrapposizioni recitate, nelle alternanze fasulle e all’occorrenza ricomponibili di governi nella sostanza sempre uguali.
Noi abbiamo imparato a riconoscerli per la loro predisposizione congenita alla menzogna: “subito un milione di posti di lavoro”, “con l’euro lavoreremo un giorno in meno e guadagneremo come se avessimo lavorato un giorno in più”…
Mentitori professionisti come l’ultimo che ci è toccato, “il rottamatore per finta”, il moralizzatore che nel 2011 è statocondannato in primo grado per danno erariale quando era Presidente di provincia, quello così leale ed affidabile di “Enrico stai sereno”, insomma, che oggi sembra tanto acclamato in un tripudio di battimani ammiccanti dagli ascari di partito e dal popolo bue.
Ma anche questo bugiardo seriale, questo manipolatore di parole ibrido ed equivoco come il suo partito, che fabbrica sogni ed attese miracolistiche di soluzioni improbabili a metà strada fra la magia e l’inganno, non avrà vita lunga nell’italietta del perenne carro dei vincitori e dei capri espiatori.
Anche lui passerà come gli altri e non farà nessun bene alla Sardegna.
A noi, però, quello che sconcertano e ci paiono intollerabili, sono le connivenze locali, i complici sardi, i servi sciocchi e disonesti di questa oligarchia trasversale che stanno in Sardegna; quelli che non conoscono minimamente i sensi di colpa mentre fingono di non capire e di non accorgersi che ci stanno rubando il presente e il futuro.
Qualche giorno fa, per esempio, è stata salutata con grande euforia la notizia che la Sardegna sarebbe fuori dal patto di stabilità.
Una conquista che il nuovo Presidente della Sardegna, lo stesso che da assessore della Giunta Soru negoziò malamente con il Governo italiano caricandoci dei costi della sanità e dei trasporti in cambio di nulla – dunque un recidivo inaffidabile – ha osato definire storica.
Niente di più falso invece: nel comunicato ufficiale del Governo italiano è infatti riportato a chiare lettere: “avviare un percorso per superare l’attuale impianto di regole che consenta di giungere già nel 2015 al sistema di pareggio di bilancio, che rappresenta la soluzione strutturale al problema della regione Sardegna, all’interno di un progetto più ampio che riguardi tutte le regioni a statuto speciale”.
Il che, tradotto, vuol dire che di certo non c’è un bel nulla, che anche queste sono solo parole, l’ennesimo spot per reggersi a galla a dispetto dei santi.
L’esito della recente elezione della delegazione italiana al Parlamento Europeo – elezione che ha discriminato il Popolo sardo quale minoranza linguistica riconosciuta – è un altro esempio della manipolazione delle parole e dei numeri al solo fine di mistificare la realtà: 840.637 sardi non hanno votato, e questo è il dato reale ed è perciò taciuto da chi parla di vittorie inesistenti.
Qui non c’è nessuna maggioranza ma soltanto una minoranza più consistente che, a sua volta, è all’interno di una minoranza.
La maggioranza vera, infatti, è data da quegli 840.637 sardi che non si è riconosciuta in nessuno di quanti, in Sardegna, si son candidati a mediare gli interessi dei partiti italiani, e che purtroppo rischia di esser convinta da questi imbonitori d’accatto dell’inutilità della politica praticata.
Tutto ciò, a noi sardisti, impone superiori obblighi e responsabilità.
Dovremo saper volgere lo sguardo al mondo, ma anche dentro noi stessi, e prendere coscienza di chi siamo realmente e di cosa vogliamo essere, per poi tracciare una linea di demarcazione netta fra noi e loro, fra chi difende il nostro Popolo e chi coopera ad asservirlo e schiacciarlo.
Dovremo saper esser chiari nei nostri programmi e nell’esempio della nostra condotta, per distinguerci nettamente da coloro che parlano e straparlano mentendo spudoratamente, rivolti soltanto alla pancia delle persone, e guardando unicamente verso orizzonti definiti dalla contingenza degli appuntamenti elettorali.
Dovremo saper difendere e preservare i valori di libertà che fanno parte della nostra storia, della nostra ragion d’essere, e della nostra coscienza come della coscienza universale, così da riuscire, finalmente, a tradurre in consenso elettorale l’elaborazione teorica che avremo saputo nel frattempo produrre, attraverso la pratica della militanza di Partito.
Ogni competizione elettorale dovrà essere per noi qualcosa di più ampio; la coerenza della nostra partecipazione dovrà dunque fondarsi sulla acquisita riconsiderazione del concetto di stato, quale realtà soprastrutturale che pone le proprie radici non nell’eternità ma nel tempo.
Insomma, dovremo saper cogliere ogni occasione per affermare costruttivamente che lo stato – come è il caso dello Stato italiano – non nasce nella natura delle cose ma nella storia; cioè della stessa società.
Lo stato è infatti oggettivamente null’altro che una forma mutevole nelle sue dimensioni – ed anche transitoria – di organizzazione politica dei rapporti sociali, e dunque non corrispondente, per definizione, ad ogni possibile stadio di sviluppo della società stessa, bensì ad un determinato stadio di questo sviluppo.
Noi pensiamo che per il Popolo sardo, la forma ottimale di organizzazione politica dei propri rapporti sociali, passi obbligatoriamente attraverso l’Indipendenza della Sardegna.
Questo concetto lo dovremo saper esprimere innanzitutto nell’esercizio della propaganda elettorale, e questa è la ragione per cui le competizioni elettorali servono sempre e devono perciò esser in ogni caso affrontate e partecipate, nessuna esclusa.
Solo in tal modo anche il concetto di Indipendenza entrerà nella cultura, nella sensibilità, nelle abitudini di pensiero della nostra gente, senza sconvolgere, turbare, spaventare nessuno.
È quello che ci vuole di fronte alla “colossale mistificazione delle cose” e della storia, considerando il fatto che questa isola ha cultura millenaria di lingua, risorse, scrittura alfabetica (v. Stele di Nora), etc… perlomeno 1000 anni prima della nascita di Roma negazionista e razzista. Salùdos!!
kuante balle ! …. tutte balle ! …. se kuesti se ne vanno ki li foraggia !? … fanno le prime donne … minacciano … abbaiano, etc. ma solo x skrokkare di + da roma puttana loro referente …
almeno fin dai tempi del komunista Feltrinelli …
Tutti hanno diritto alla propria Patria, non possiamo valutare la situazione durante il regime italico, anche noi siamo snaturati al momento. Fortza Paris!