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«viva san marco!» ma prendendo lezioni dal proprio passato

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san marcodi ENZO TRENTIN

Noi, per lo più, nella vita ci sentiamo smarriti. Diciamo a noi stessi: ti prego dio, dicci cos’è giusto. Dicci che cos’è vero. Non esiste giustizia. Non esiste equità tra il ricco ed il povero. Ci sentiamo stanchi di sentire le menzogne della gente, e soprattutto quelle dei politicanti. Con il tempo diventiamo un po’ come morti, considerando noi stessi come delle vittime. E diventiamo vittime. Diventiamo deboli. Dubitiamo di noi, di ogni nostro princìpio. Dubitiamo delle nostre istituzioni. E dubitiamo della legge. Ma in democrazia i cittadini sono la legge. Non i libri, non una Costituzione (quella italiana mai votata dal popolo), non i politici che ci rappresentano. Non sono nemmeno la bandiera o i monumenti o le singole istituzioni, poiché quelli sono i simboli di ciò che noi vorremmo rappresentasse la giustizia sociale. Chi è religioso si affida alle indicazioni della sua fede, ed una di queste suggerisce: agisci come se avessi fede, e la fede ti sarà data. Se dobbiamo avere fede nella giustizia, ci basta solo credere in noi stessi. E agire con giustizia. E dobbiamo credere che ci sia giustizia nei nostri cuori quando ci poniamo di fronte ai dubbi che Shakespeare insinua nella mente di Amleto laddove assillato riflette: «Essere o non essere, questo è il problema. […] E sono proprio pensieri siffatti a prolungare la durata della sventura. Perché, chi sopporterebbe le sferzate e le irrisioni del tempo, i torti dell’oppressore, le offese dei superbi, le pene di un amore respinto, i ritardi della legge, l’arroganza dei potenti, gli scherni che il meritevole pazientemente subisce da parte di gente indegna […] (il) timore che, confondendo la nostra volontà ci induce a sopportare i mali di cui siamo afflitti, piuttosto da spiccare il volo verso altri a noi completamente ignoti? […]».

I veneti sono italiani per un capriccio della storia. Il popolo veneto ha oltre 3.000 anni di storia. I siti archeologici ed i musei lo attestano. Per oltre 1.100 anni questo popolo si è retto per mezzo di una repubblica, laddove negli stessi anni imperava il dominio della forza e dell’assolutismo. La storia e la geografia hanno fatto sì che i veneti fossero prima di tutto tali. Per ritornare ad essere veneti serve l’indipendenza. Ogni popolo ha il diritto di scegliersi il tipo di contratto sociale e di governo che preferisce. Ogni popolo ha il diritto di scegliere la propria lingua, le proprie istituzioni sociali, le proprie usanze, di coltivarle, cambiarle, migliorarle, tramandarle di generazione in generazione. I veneti hanno questo diritto, ma non lo potranno praticare per intero fino a quando non saranno indipendenti. Qualsiasi governo del Veneto che sieda fuori del suo territorio curerà prima di tutto i propri interessi, non quelli dei veneti. Ogni popolo ha il diritto di instaurare con gli altri popoli le relazioni che trova più opportune. I veneti devono decidere da soli con chi essere amici o meno. Ogni popolo, come ogni individuo, ha il diritto e il dovere di diventare maggiorenne. I veneti non saranno mai maggiorenni fino a quando lasceranno che altri decidano al posto loro le cose che li riguardano. Rimarranno bambini, con tutti i problemi che l’infantilismo genera. Ogni popolo, come ogni individuo, ha il diritto e il dovere di procurarsi da sé le risorse necessarie per vivere. Ogni popolo ha il diritto di arricchirsi. I veneti non potranno mai arricchirsi fino a quando lasceranno che altri decidano al posto loro in che modo sfruttare le risorse del popolo veneto. Maurizio Onnis rivendica le stesse cose per il popolo sardo.

San MarcoMa per far questo è necessario prendere lezioni dal proprio passato. «Viva San Marco!» Quel grido, spesso accompagnato da «Viva la Repubblica», testimonia l’amore del popolo veneziano per il suo vecchio governo che per più di mille anni lo aveva reso uno dei più felici della terra, vale a dire libero e indipendente. Infatti, in nessun altro luogo come a Venezia la gente si sentiva più sicura, «più libera dalla paura», più felice: «I Veneziani erano veramente un popolo fortunato: non avevano diritti politici, ma non furono mai oppressi. Il popolo poteva occasionalmente lamentarsi del proprio governo, ma non insorse mai contro di esso […]. Era un popolo di lavoratori tenaci, con una proporzione insolitamente alta di artisti e di artigiani; conosceva meglio di qualsiasi altro popolo al mondo l’arte di divertirsi con stile e nella magnificenza; e viveva la propria vita in una città ancora più bella […] di quella che noi, conosciamo oggi. Amava quella città appassionatamente e per mille anni fu fedele alla Repubblica che l’aveva eretta, arricchita e difesa» (1).

Vi fu una rivoluzione, ma soltanto nel governo della città. Il popolo non conobbe alcuna sofferenza, Venezia non corse alcun serio pericolo. La Venezia aristocratica, la Venezia dei dogi, morì, e la sua morte fu pianta da pochissimi nel mondo: «Morì senza un solo amico in Europa e nemmeno nel resto d’Italia. I curiosi l’ammiravano per la sua bellezza, i gaudenti per i piaceri che offriva, ma pochi o forse nessuno l’amava per quello che era. Non aveva mai suscitato molte simpatie nel mondo che la circondava. Nei giorni della grandezza la sua popolarità [fama] era parzialmente imputabile all’invidia; invidia per la sua ricchezza, per il suo splendore e per la magnifica posizione geografica che la proteggeva da invasioni e attacchi» (2).

Invidiata soprattutto delle aristocrazie e dalle signorie dominanti in Europa, in Nord Africa e dal turco, ma anche della nobiltà della provincia veneta che era da tempo ostile all’oligarchia della capitale che aveva sempre più accentuato la centralizzazione del potere per reagire alla debolezza economica della Repubblica, mentre gli intellettuali e i ricchi borghesi erano desiderosi di cavalcare le esperienze della Francia rivoluzionaria, ansiosi di sostituirsi quale nuova classe dirigente alla vecchia aristocrazia. Così anche a Venezia le «idee francesi» avevano fatto proseliti: «Le nuove idee sociali e politiche venute di Francia alla fine del secolo XVIII, avevano trovato terreno propizio anche in Venezia non tanto tra il grosso del popolo, quanto tra gli ottimati del Maggior Consiglio, dei quali alcuni per ambizione e per vanità, altri per paura, si mostravano favorevoli o non ostili ai propagandisti». (3).

Alcuni sostengono che la democratizzazione della Serenissima Repubblica fu voluta, o quantomeno accelerata, dalla maggioranza degli uomini di governo per motivi di interesse personale: il desiderio di ritornare al più presto in possesso delle proprie terre e relative rendite. Altri, invece, affermano che i più illuminati degli uomini di governo si erano accorti che il ciclo vitale della Serenissima era finito, per cui bisognava ridare il potere al popolo affinché la Repubblica di san Marco potesse continuare ad esistere.

Nel ‘700 veneziano critici mal documentati, o peggio storici prevenuti «vedono in ogni angolo della vita ombre oscure, difetti, che in realtà sono sempre esistiti, errori, incapacità, inerzia, torpore» In effetti, il ‘700 veneziano «non viveva solo tra feste, balli, maschere, baute, parrucche, nei caffè, nei teatri, nei casini […], non aveva soltanto il volto goldoniano o quello casanoviano di un mondo corrotto, decadente e venato di scandali. La vita veneziana, nonostante i grandi vizi, da cui era corrosa, possedeva sufficienti riserve di spirito e di azione e pensosa poteva e sapeva meditare sopra i maggiori problemi interni e internazionali, e avanzare serenamente, prima di spegnersi, prospettive per il futuro». (4)

Tuttavia la disastrosa condizione della Repubblica non era imputabile al settecento. I primi segni ammonitori della decadenza venivano

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da molto lontano, risalivano addirittura alla seconda metà del secolo XV col verificarsi delle «nuove condizioni storiche che chiariscono la genesi della crisi». una crisi che veniva dall’esterno: la perdita di Costantinopoli, «l’avanzata del turco dall’oriente, che strappava a uno a uno i possedimenti del levante alla repubblica» e «ne rendeva difficile e precaria l’attività mercantile», «la scoperta della via alle Indie orientali intorno all’Africa e quella dell’America», «la concorrenza delle grandi potenze occidentali». Tutti questi fattori si ripercossero all’interno della Repubblica disseccandone il commercio, cioè la fonte primaria della prosperità di Venezia, facendo tramontare l’aristocrazia mercantile, la quale esauriva così la sua funzione politica ed economica, costringendola a rinchiudersi sempre più in se stessa, a salvare il salvabile.

E tramontata l’aristocrazia mercantile occorreva che il patriziato si rinnovasse con notevole apporto di nobili di Terraferma (visto che l’interesse economico si era spostato dal mare alla terra, dall’espansionismo marittimo alla «potenzialità economico-agraria dello Stato regionale»), che una nuova classe politica raccogliesse la successione della vecchia aristocrazia; infatti, il governo veneziano, resosi conto che la classe dirigente patrizia era avviata al tramonto e però volendo mantenere le proprie posizioni, si stava orientando, anche se con grave ritardo sui tempi, verso una nuova aggregazione che ridonasse vitalità alla Serenissima, ma in questo suo progetto non tenne conto della furia napoleonica e del moto giacobino («Senza il moto giacobino-napoleonico probabilmente l’aristocrazia veneta avrebbe continuato a far funzionare il proprio meccanismo»), e il nuovo Attila la cancellò dalla storia in un baleno. (5)

È il punto su cui gli indipendentisti veneti dovrebbero soffermarsi a riflettere. I meccanismi della repubblica italiana non funzionano più da molto tempo, non è possibile pensare ad un nuovo soggetto istituzionale indipendente se non si prefigura un diverso assetto istituzionale. Azzardato, se non addirittura criminale il pensare d’ottenere prima l’indipendenza, per poi darsi nuovi ordinamenti. Infatti, per tornare alle lezioni della storia, Il 16 maggio 1797, quando a Milano si firmava il trattato di pace tra la Repubblica francese e la Repubblica veneziana, nella città delle lagune era già stato affisso, «di buon mattino», il manifesto della Municipalità Provvisoria e la gente poteva così conoscere i nomi dei sessanta membri che formavano il nuovo governo, «eletti dai filo-francesi veneziani e facenti capo a Villetard» (6).

Il buon popolano legge il Manifesto, annota mentalmente le promesse della Municipalità (rispetto della libertà, della religione, degli individui e della proprietà; ricomposizione del Dominio di Terraferma) e poi si sofferma incuriosito sulla lista dei municipalisti. La scorre dall’alto al basso e dal basso all’alto. Ritorna a farvi correre gli occhi. Pensa a quei nomi e all’affermazione contenuta nel Manifesto: «sono stati scelti tra tutte le Classi degli abitanti», e dice a se stesso: che diamine, all’«aristocrazia dei nobili» è subentrata l’«aristocrazia dei ricchi»; va bene che un demos, una massa popolare non può mai sognarsi di regnare e quindi ha bisogno di rappresentanti, ma qui si esagera; si è fatto tutto questo casotto per non cambiare niente, per lasciare tutto com’era prima; sì, certo, il livellamento, l’eguaglianza, la fratellanza, la libertà…, ma qui nessuno ha chiesto il nostro parere, il parere del popolo, già il popolo, che con la democrazia di adesso non conta proprio niente, mentre una volta, invece, era veramente padrone e sovrano di Venezia:«eleggeva i dogi; li cacciava quando tentavano di usurparne l’autorità o mal governavano, li bandiva dalla città e li faceva morire, gli cavava gli occhi. Si riuniva annualmente nelle chiese e nelle parrocchie ed eleggeva il Maggior Consiglio, dal quale erano eletti tutti i magistrati e tutte le cariche» (7).

Una volta…, e si allontana scuotendo il capo. Dubbioso. Insoddisfatto. In effetti, se si tiene presente che al momento dell’abdicazione del Maggior Consiglio la popolazione si divideva ufficialmente in patrizi o aristocratici (iscritti nel Libro d’Oro), cittadini originari (iscritti nel Libro d’Argento) e popolani (tutti gli altri), l’affermazione della Municipalità non fa una grinza. Ma se si considera che il ceto popolare comprendeva i poveri, gli abbienti e i ricchi, allora quell’affermazione appare quantomeno demagogica, perché scorrendo la lista dei municipalisti si trovano i nomi di una decina di patrizi «noti per la loro popolarità», unitamente a banchieri, industriali vetrai, avvocati, commercianti, tutti personaggi se non ricchi, ricchissimi; il vero rappresentante del popolo, che però aveva una ‘patente’ di nobiltà essendo il ‘doge dei Nicolotti’, era il pescatore Dabalà (8). Si capisce allora che l’abdicazione è stata solo un fatto politico, una ‘staffetta’ tra ricchi-patrizi e ricchi-cittadini. Nella sostanza nulla è mutato. Il popolo era ed è rimasto spettatore. Niente è avvenuto che possa essere paragonato alla Venezia democratica delle origini e dei primi dogi, quando il popolo partecipava alla formazione del governo e al limite poteva decidere sia la guerra che la pace.

Per evitare, quindi, che la storia non sia “maestra di vita”, e per allontanare dai contemporanei gli errori fatti dai propri progenitori, è indispensabile prefigurare al popolo veneto in quale nuovo assetto sociale lo si vuol portare. Emarginando gli “Zio Tom”, quelli che non fanno i ribelli, non capeggiano rivolte. Quelli che semplicemente si rifiutano di compiere il male che gli viene chiesto. Ed il male, per loro, è l’esercizio dell’autodeterminazione. Poi vanno  evitati i collaborazionisti, quelli che si preoccupano solo di soddisfare i propri bisogni e desideri di egoismo ed egocentrismo. Coloro per cui qualsiasi altra cosa e qualsiasi altra persona vengono ridotte nella loro mente ad oggetti da usare per soddisfare i propri bisogni e desideri. Spesso sono convinti di fare qualcosa di buono per la società, o almeno niente di così brutto, arrabattandosi in fantasiose vie legali offerte dalla “democrazia” della repubblica italiana. Tsz! Invischiandosi in promesse di nuove libertà senza però indicare secondo quali regole, e delle libertà dei politici e dei burocrati francamente non se ne alcun bisogno.

NOTE:

(1) F. Thiriet, Storia della Repubblica di Venezia,Venezia, 1981, p. 105.

(2) J.J. Norwich, Storia di Venezia, Milano, 1982, vol. 2, p. 453.

(3) D. Ricciotti Bratti, La fine della Serenissima, Milano, 1917, p. 1.

(4) R. Cessi, Un millennio di storia veneziana, Venezia 1964, p. 206.

(5) M. Petrocchi, Il tramonto della Repubblica di Venezia e l’assolutismo illuminato, Venezia, 1950, p. 31)

(6) Dalla corrispondenza del diplomatico napoletano a Venezia (cav. Micheroux) col suo ministro degli esteri (Fabrizio Ruffo, principe di Castelcicala) si apprende che le fila del movimento democratico erano tenute anche dal Lallement (che nei giorni cruciali di maggio era a Milano, ma che evidentemente aveva lasciato ordini precisi) e dal console d’Olanda: «È da notarsi che la nota de’ municipalisti è stata dettata dal Ministro e dal Segretario di Francia, e che costoro l’han formata su i suggerimenti del noto Gabrielli, già mio Segretario, ed oggidì Console d’Olanda». (In G. Nuzzo, «A Venezia, tra Leoben e l’occupazione austriaca», in R. Liceo-Ginnasio «T. Tasso». Annuario 1935-6, Salemo, 1937, p. 167).

(7) Carte sortite in Venezia, 1797, tomo V, p. 2.

(8) La Municipalità era composta da rappresentanti di gruppi, caste: PATRIZI (Bembo, Corner, Dolfin, Erizzo, Gritti, Mocenigo, Pisani, Renier, Widman e Giustinian), CITTADINI ORIGINARI, EX-FUNZIONARI DELLA SERENISSIMA (Fontana, Mondini, Plateo e Vignola), EBREI (Grego, banchiere; Luzzatto, mercante; Vivante, mercante e banchiere), DALMATI (Bujovich e Garagnin, ex-conti; Chiorco e Jovovitz, mercanti), GRECI (Conomo, mercante; Sordina, cancelliere), VENETI (il veronese Benini, avvocato; il cadorino Barbaria e il muranese Bigaglia, PROPRIETARI DI FABBRICHE VETRARIE; il nobile feltrino Mengotti, economista), AVVOCATI (Gallino, Giuliani, Marconi, piazza e Spada), MEDICI (Melancini), FARMACISTI (Armano e Dandolo), NOTAI (Dana), MILITARI (Turrini e Ferro), ABATI (Signoretti), ARCIPRETI (Talier), COMMERCIANTI, MERCANTI E BANCHIERI VENEZIANI (Calvi, Guizzetti, Martinelli, Rota, Zoppetti e Zorzi, commercianti; Bullo, Carminati, Dal Fabbro, Ferratini e Ferro, mercanti; Buratti e Revedin, banchieri).

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