“L’invenzione fiscale, che appariva geniale al momento della sua creazione, è un veleno sociale particolarmente insidioso.” Era un vero piacere ascoltare Maurice Lauré, durante le sue lezioni di economia all’Ecole Nationale d’Administration (l’ENA è la più prestigiosa scuola francese di economia). Era brillante, di un’intelligenza profonda, ma anche pieno di umorismo. Era carismatico, quando parlava della sua invenzione: la TASSA SUL VALORE AGGIUNTO.
Questa invenzione si trasformò in legge nel 1954. All’epoca, le imposte indirette, specialmente l’imposta sulle vendite, era una delle fonti più importanti del budget, ma eravamo degli studenti compiaciuti e non potevamo che applaudire, quando Lauré spiegava che questa imposta non era neutra. Penalizzava i lunghi circuiti di distribuzione, mirava a tassare chi voleva industrializzarsi investendo, in quanto un macchinario veniva tassato nel momento dell’acquisto.
Il valore aggiunto era veramente una soluzione geniale, che eliminava queste distorsioni e ci “regalava” un’imposta economicamente neutra, il sogno di un economista. E che plebiscito, per questa invenzione francese, che è stata adottata in quasi tutto il mondo, in tutta l’Europa, in Australia e addirittura in Giappone. Lo studio Ernst & Young, in un recente rapporto, indica che il numero di Paesi che hanno adottato l’IVA è triplicato dal 1990 (164 Paesi).
Sessant’anni più tardi, possiamo chiederci se dietro al brillante concetto economico, non si nascondesse uno dei più perniciosi veleni che l’economia possa distillare. Il pericolo dell’IVA, come abbiamo spesso scritto, è che la paghiamo mangiando, bevendo, e anche nascendo e morendo. E’ inclusa nel prezzo dei prodotti e versiamo questa imposta senza nemmeno rendercene conto. Una grandissima differenza rispetto all’imposta sul reddito, dove tutti ne misurano il peso al momento della loro dichiarazione. Questa imposta è benedetta dagli statalisti.
Introdotta in Francia nel 1954, contribuisce all’espansione della burocrazia: il numero di funzionari pubblici è passato da circa 970.000 nel 1954, a 2.5 milioni nel 1984. Inizialmente fu introdotta come imposta sulla produzione di beni fisici, ma poco a poco si è estesa all’insieme dei beni e dei servizi, tranne qualcuno, per esempio banche e ospedali. Ogni volta che le casse dello Stato cominciano a svuotarsi, è sufficiente dare un giro di vite, aumentandone l’aliquota, o aggiungendo nuovi settori. Il Giappone ha appena aumentato l’IVA dal 5 all’8%. Ma forse è anche grazie all’IVA, che l’espansione economica viene stroncata.
La crescita media del PIL, quando l’IVA venne introdotta, era dell’ordine del 5%, trent’anni dopo eravamo precipitati nella zona dell’1% e lì siamo rimasti. Il peso finanziario incide sui prezzi, attraverso controlli multipli, regolamenti, autorizzazioni associate all’espansione della burocrazia. Ed è per questo che continuano a giustificarne l’esistenza e il suo sviluppo. Il solo grande Paese che ha resistito al tranello dell’IVA, sono gli USA. Ne spinsero energicamente l’introduzione, ai tempi della Presidenza di Ronald Reagan e la tentazione è tuttora presente. Il pensiero di Ronald Reagan e Milton Friedman, era chiaro: se si vuole limitare l’espansione dello Stato, l’unica soluzione è quella di farne sentire il peso agli elettori. L’IVA lo nasconde. Al contrario, l’imposta sul reddito, che negli USA resta ancora la principale fonte di entrate per lo Stato federale, fa si che per un Governo è politicamente redditizio ridurre la sua burocrazia.
Un altro difetto dell’IVA è che si tratta di un’imposta iniqua, spesso denunciata dai socialisti, in quanto tassa i consumi di prima necessità, ma non i risparmi, che occupano un posto importante nei redditi più alti. L’invenzione di Maurice Lauré è tuttavia lontana dall’essere abolita, in quanto, se crediamo al rapporto di Ernst & Young, non soltanto questa imposta si è estesa geograficamente, ma le aliquote non cessano di aumentare in tutti i Paesi che ne sono stati contaminati.
Traduzione di Valentina Cavinato – Fonte originale qui