“La revisione della spesa non è il tentativo di far del male ai cittadini, ma di utilizzare meglio i loro soldi. Non tocca la carne viva dei cittadini, ma gli sprechi della P.A. E’ sconvolgente che ci siano migliaia di partecipate, tagliarle è un favore ai cittadini. Abbiamo centinaia di realtà che acquistano prodotti informatici. Perché non possiamo ridurre le spese informatiche? La spending la facciamo perché è giusta non perché ci servono i soldi”. Matteo Renzi ha approfittato della conferenza stampa in cui ha presentato il Documento di Economia e Finanza per tornare sul tema della spending review. Un argomento sul quale la divergenza tra il dire e il fare è quanto mai evidente.
Un anno fa Renzi aveva da poco defenestrato Enrico “stai sereno” Letta e già faceva vedere agli italiani le prime slides, alcune delle quali dedicate proprio alla spending review. Secondo Renzi si poteva tagliare molto più di quello che stava ipotizzando l’allora commissario alla spending review, Carlo Cottarelli.
Come è andato il 2014 è storia nota: Cottarelli è stato invitato a tornare al FMI, mentre il maggior deficit rispetto a quanto programmato (0.4 per cento di Pil) è dovuto a tagli di spesa non fatti. E le clausole di salvaguardia fatte di aumenti di Iva e accise nel 2016 e 2017 che adesso Renzi garantisce saranno eliminate sono state introdotte nella legge di stabilità (sempre da Renzi & company) proprio perché non si è concretizzata la spending review.
Per esempio, la storia delle 8.000 partecipate che devono scendere a 1.000 è ormai un classico che Renzi continua a tirare fuori, senza peraltro che la riduzione abbia avuto inizio. Più o meno lo stesso copione seguito con la vendita su eBay delle auto blu. La spending review andrebbe fatta effettivamente perché è giusto farla, ma non per “utilizzare meglio” i soldi dei cittadini, semplicemente per tassarli veramente di meno, e non a parole o tassando meno Tizio mazzolando di più Caio. Se, poi, a essere tagliati saranno i trasferimenti agli enti locali senza che a questi sia impedito di aumentare i balzelli di loro competenza, le tasse molto probabilmente finiranno per aumentare.
Pochi giorni fa sono stati resi noti i dati su entrate e uscite consolidate delle amministrazioni pubbliche. Nel 2014, al netto degli interessi sul debito pubblico, la spesa pubblica è stata pari a 692.331 miliardi, 8.300 miliardi in più rispetto al 2013. Le entrate sono invece state pari a 769.883 miliardi, 6.706 miliardi in più rispetto al 2013. Renzi può anche spostare 6-7 miliardi relativi al bonus di 80 euro che ha concesso ai dipendenti con redditi medio-bassi, ma resta pur sempre evidente che, a livello macro, non c’è stato alcun calo di spesa, né di tasse. Il che, a livello micro, significa che molti italiani hanno subito nel 2014 una mazzolata superiore al 2013 (un trend consolidato, purtroppo).
Sulla discrepanza tra parole di Renzi e realtà, sia in retrospettiva, sia in prospettiva, riporto di seguito un ampio stralcio dell’editoriale di Luca Ricolfi pubblicato sul Sole 24 Ore del 5 aprile (prima, quindi, della presentazione del DEF).
“Il problema è che, quando arrivano i dati Istat, le chiacchiere stanno a zero. Si possono pronunciare parole alate, si possono confezionare slide variopinte, si possono esibire modernissimi (ma neanche poi tanto) fogli Excel, si può cinguettare finché si vuole su Twitter e Facebook, si possono riversare sui media vagonate di slogan e di battute irridenti, ma poi arriva la dura, pietrosa, irriducibile realtà dei dati. Basta una piccola, modesta, tradizionale tabellina come quella dei conti pubblici pubblicata dall’Istat il 2 aprile per far svanire ogni illusione: la politica, con la sua perdurante invadenza e pervasività, non mostra alcuna intenzione di fare passi indietro. Come un ghiacciaio che non si ritira, ma allunga la sua morsa sulla roccia su cui poggia. Che aspettarsi, perciò? Date le premesse, lo scenario più verosimile mi pare quello di sempre: qualche taglio di spesa (ottima l’idea di aggredire le false pensioni di invalidità), ovviamente accompagnato dalle immancabili nuove spese prioritarie e indilazionabili; un po’ di deficit pubblico in più, magari presentato come premio per aver fatto “le riforme che ci chiede l’Europa”; e naturalmente il consueto aumento della pressione fiscale complessiva, poco importa se attuato alzando l’Iva dal 1° gennaio 2016, o attraverso un cocktail più complicato di inasprimenti fiscali (giusto ieri si è ricominciato a parlare di tagli agli incentivi e alle agevolazioni per le imprese).
Ma non è tutto. Alle falle nei conti pubblici che stanno venendo a galla in questi giorni, potrebbe purtroppo aggiungersene una nuova, non preventivata dal governo ma più volte segnalata dagli studiosi del mercato del lavoro: i 2 miliardi scarsi stanziati per il 2015 dalla legge di stabilità per incentivare le assunzioni a tempo indeterminato potrebbero non bastare. Nulla esclude, infatti, che il mercato del lavoro italiano nel 2015 sia investito da una sorta di “bolla occupazionale”, destinata a scoppiare, ossia a sgonfiarsi, solo nel 2016. Questo perché, se il governo confermerà che lo sgravio vale solo per gli assunti nel 2015 (o semplicemente lascerà nel vago la possibilità di una proroga nel 2016), allora nel 2015 si cumuleranno tre tipi di assunzioni: le assunzioni rimandate a fine 2014 in attesa dello sgravio; le assunzioni “normali” del 2014; le assunzioni del 2016 anticipate al 2015 per usufruire dello sgravio. Di qui un aumento apparente dell’occupazione, e un’ulteriore falla (reale, in questo caso) nei conti pubblici del 2015.
Ecco perché, sull’evoluzione futura della pressione fiscale, è difficile essere ottimisti. Se ci sarà bisogno di rifinanziare la decontribuzione, il governo i soldi li troverà, perché è politicamente conveniente. Ma pensare che li troverà disboscando la giungla degli sprechi pubblici, anziché imponendo nuove tasse, è una generosa illusione: se davvero ci fosse stata, e tuttora ci fosse, la volontà di aggredire la spesa improduttiva, Carlo Cottarelli, il commissario alla spending review, non se ne sarebbe tornato a Washington, al Fondo Monetario, ma sarebbe ancora qui, chiuso nel suo ufficio, a studiare come si doma il drago della spesa pubblica.”
A mio parere ciò che veramente è “sconvolgente” è quindi che qualcuno creda ancora a un chiacchierone dietro i cui proclami su riduzione di tasse e spesa c’è il nulla (quasi) assoluto.