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L’esercizio della sovranità popolare è antico

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COP-sovranitadellaleggebirindellidi ENZO TRENTIN

La sovranità popolare, la libera volontà del popolo, è il cuore ed il principio fondante della democrazia ed ha poco a che fare con la cosiddetta democrazia rappresentativa. Solo il popolo è il giudice supremo in democrazia. Quando, viceversa, il rispetto sostanziale del mandato popolare viene manipolato o con lo stravolgimento della verità fattuale e testimoniale o in maniera furba e pilatesca mediante una presa d’atto che non esamina e nasconde e distrugge le prove ed i ricorsi contrari per avallare la verità e la prevalenza ideologica decisa a tavolino, cadiamo allora proprio in quel pervertimento mortale della democrazia che è il broglio. Per conseguenza, e solo a titolo d’esempio, il broglio del mancato rispetto d iinfiniti esiti referendari materializzati dal Parlamento, come pure l’opposizione all’indizione di un referendum (peraltro consultivo) sull’indipendenza del Veneto, è un delitto capitale e distruttivo della democrazia perché costituisce in sostanza il tradimento della fonte primaria di legittimazione della stessa democrazia.

I politicanti, che hanno occupato, attraverso i partiti, le istituzioni dello Stato, fanno di tutto per convincere l’opinione pubblica che la politica è solo una questione di élite, di esperti che hanno necessariamente una formazione superiore. Secondo costoro i cittadini comuni non sono considerati in grado di esprimere un parere autorevole e qualificato sugli orientamenti politici di massima, i cambiamenti economici e sociali che modellano il loro paese. I cittadini vengono prevaricati dall’obbligo di una tassazione tanto persecutoria (i suicidi di chi non riesce a pagare le gabelle sono centinaia (si veda qui), quanto illegittima, poiché si pretende l’esazione a fronte di servizi che non sono stati deliberati dalla sovranità popolare, e la cui qualità è assai discutibile.

E pensare che circa sessant’anni fa, con due semplici pensieri, Don Luigi Sturzo aveva già chiarito tutto: «Abbiamo in Italia una triste eredità del passato prossimo e anche in parte del passato remoto, che è finita per essere catena al piede della nostra economia, lo statalismo economico inintelligente e sciupone, assediato da parassiti furbi e intraprendenti, e applaudito da quei sindacalisti senza criterio che credono che il tesoro dello Stato sia come la botte di San Gerolamo dove il vino non finisce mai… «Nel mio cammino verso la Democrazia per esperienze personali, studi e lotte, di bestie enormi ne ho individuate proprio tre: lo statalismo, la partitocrazia, l’abuso del denaro pubblico. Il primo va contro la libertà; la seconda contro l’uguaglianza, il terzo contro la giustizia. Ebbene, senza libertà, uguaglianza e giustizia non esiste democrazia.»

Prescindendo dall’antica Grecia, il democratico Parlamento più antico del mondo, è l’Althing di cui restano solo banchi di pietra nel verde dell’Islanda. L’Althing è stato fondato nel 930 a Þingvellir (il “luogo dell’assemblea”), situato a circa 45 km a est di quella che sarebbe divenuta la capitale della nazione, Reykjavík. Anche dopo l’unione dell’Islanda con la Norvegia, l’Althing continuò a organizzare le assemblee a Þingvellir fino al 1799, quando le sue attività si interruppero per qualche decennio. Le assemblee ripresero nel 1844 e furono trasferite a Reykjavík, luogo in cui risiede da allora.

In Svezia la Jamtamot inizialmente non aveva un re su di essa, quindi la Jämtland, nel periodo precedente 1178, è considerata come una repubblica contadina. Tutti gli uomini liberi dovevano partecipare e gli uomini più importanti delle diverse famiglie deliberavano congiuntamente su varie questioni riguardanti il paese. Si deliberò su questioni importanti, chiedendo e informando tutti gli  assemblati. Ci sono teorie che sostengono come la Jamtamot abbia deciso di abbracciare il cristianesimo durante il 1000, poco dopo la battaglia di Stiklestad. Con la perdita alla battaglia di Storsjön del 1178, la Jamtamotet ha continuato ad operare sotto il controllo norvegese. Alla fine del 1400 il Jämtland era una Assemblea Legislativa norvegese. Nel 1500, un Jamtamot si riscontra anche nella contea danese.

Il Comune compare nelle fonti documentarie a partire dalla fine dell’XI secolo come commune (Le Mans, 1070) ma anche communitas (Cremona, 1078) e più tardi universitas – termine del diritto romano per indicare un «tutto», un complesso unitariamente considerato. Come ancora oggi, Comune ha indicato in passato, in Italia e altrove in Europa, ogni istituzione di governo locale, quale che fosse la dimensione della comunità amministrata e quale che fosse l’ampiezza delle sue competenze e dei suoi poteri; che si trattasse di città o anche di centri minori, di castelli e di insediamenti montani e rurali pur di scarso spessore demografico.

La Landsgemeinde è una tradizione del tardo Medioevo germanico. Gli Alamanni avevano perso la loro indipendenza con l’impero dei Franchi nel secolo VIII, ma riemerge nei loro territori nel XIII secolo. La prima Landsgemeinde svizzera è attestata per Uri nel 1231. I testi in latino registrano la Landsgemeinde definendola universitas “l’universalità”, o communitas hominum “la comunità degli uomini” di un certo Cantone per sottolineare che la decisione è stata presa dalla comunità (democrazia diretta), piuttosto che da una élite politica.

Oggi sappiamo che Confederazione svizzera è un trionfo confederale promosso dalla sovranità popolare. Per certo sappiamo che, l’occasione del subitaneo giuramento del Grütli fu senz’altro offerta dalla morte di Rodolfo d’Asburgo, e dalla necessità di precostituire, pendente la successione, il baluardo di un potere federato contro il pericolo della fiscale e  opprimente amministrazione dei balivi (funzionari, investiti di vari tipi di autorità o giurisdizione). E qui viene subito da pensare all’odierna Italia con le sue agenzie quali Equitalia.

Chi furono i primi confederati? Il testo del patto (sconosciuto agli storici fino a metà Settecento; il relativo giuramento era dalla tradizione indicato nell’anno 1307) implicitamente li attesta quali capi, notabili e loro collaboratori, di comunità evolute: la cultura giuridica e politica tardo-feudale, e quella religiosa diffusa dalle abbazie, sta a monte del documento il quale si rivela voluto da esponenti di comunità in fase di sviluppo economico, vogliose di emancipazione sociale e politica.

GIURAMENTO GRUTLII nomi dei trentatré uomini del giuramento del Grütli (fra i quali la leggenda vorrebbe naturalmente Guglielmo Tell) possono desumersi da un documento coevo (un’alleanza fra Zurigo, Uri e Svitto, del 16 ottobre 1291), che elenca i capi di Svitto e di Uri e loro collaboratori: landamani, nobili, notabili a voler intender per tali anche rappresentanti significativi di un inferiore strato sociale (quali un servo del convento di Wettingen). C’è da presumere che coloro che due mesi e mezzo prima avevano giurato il patto del Grütli fossero del pari protagonisti dell’importante alleanza con Zurigo: Chuonrat ab Iberg, landamano, Arnolt di Silenen. E poi: Rudolf de’ Stauffer, Chuonrat Runn per Svitto; Wernher von Attinghausen, Burkart, già landamano, e Chuonrat d’Oertschon (Erstfeld) per Uri.

Personaggi quali Walter Fürst, di Uri, Werner Stauffacher di Svitto, Arnold von Melchtal di Unterwaldo, sono segnalati dalla leggenda  quali organizzatori (dopo alcuni loro incontri sul Grütli, ognuno dei tre avrebbe portato con sé 10 uomini dal proprio cantone, per il grande giuramento) dell’incontro risolutivo che si concluse con il patto eterno (gli ultimi due sono indicati quali vittime di soprusi dei rispettivi balivi: una casa contestata perché in pietra, e dunque troppo ricca; il padre accecato perché si ribellava al sequestro dei suoi buoi…). Personaggi peraltro che, insofferenti dell’amministrazione dei balivi, avevano tuttavia sempre fatto puntigliosamente valere i loro interessi nei rapporti con i loro conterranei con i vicini (gli Stauffacher avevano sequestrato un cavallo alle monache di Steinen in garanzia del pagamento di tributi; vivaci furono le liti confinarie degli svittesi con Einsiedeln).

Nella penisola italica, l’Arengo è stata la prima forma di governo della Repubblica di San Marino. Il termine Arengo, in origine, indicava l’assemblea di tutti i capifamiglia che si riunivano al suono della campana maggiore della pieve per decidere le questioni importanti riguardanti la vita pubblica. Questa assemblea deteneva tutti i poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario che prima erano nelle mani di una sola figura, l’abate feudatario.

Nato nell’Alto Medioevo, intorno all’anno 1000, l’Arengo rispondeva all’esigenza di creare un organo politico capace di governare e dirigere la comunità che si era formata. Esso è il luogo dove le cittadinanze insorte contro i feudatari si riunivano per deliberare. L’assemblea era detta anche concione o parlamento. Indetto dal magistrato cittadino, deliberava di solito per acclamazione; organo sovrano del Comune. Ne regolava la costituzione, decideva pace, guerra e alleanze, legiferava, eleggeva i pubblici ufficiali. Quelli che sono oggi i problemi di un parlamento nazionale passavano per le assemblee comunali e le giunte di governo variamente denominate e variamente controllate dalle assemblee e assistite dai molti notai e dai giuristi ormai forniti di titoli universitari. Pochi e presenti in città sotto l’antico e accattivante nomen di «giudici», anche se attivi come consulenti e avvocati anziché come giudici effettivi nelle corti giudiziarie.

Le assemblee furono in vario modo espressive della collettività tutta, e comunque con la tendenza a presentarsi come tali, rappresentative del populus e della civitas come lo erano i consoli. Ma il «popolo» poteva essere chiamato direttamente a «parlamento» (concio, arengo), ossia in piazza davanti alla cattedrale, di solito, mancando per tanto tempo i palazzi «pubblici» (in Veneto, il Palazzo della Ragione di Padova e la Basilica Palladiana a Vicenza verranno nei secoli successivi), per approvare in modo corale una nomina; ad esempio dei consoli da parte dei predecessori, o un evento importante come la proclamazione di una guerra ecc., si faceva con un sì (sic! sic!, o fiat! Fiat! di solito), ossia con modalità che non davano molte garanzie né di ponderatezza di giudizio né di reale assenso, ma che comunque salvavano il principio della titolarità popolare del potere.

Naturalmente ci furono anche dei raggiri che oggi definiremmo operazioni demagogiche. In conformità al filone «ascendente» della teoria di governo, nell’antica Venezia l’autorità suprema spettava in linea di principio all’Assemblea popolare (Concio o Arengo appunto). In queste adunanze collettive della popolazione avveniva la scelta del doge e l’approvazione delle nuove leggi; ma sembra chiaro che queste operazioni erano dominate dalle famiglie potenti. La descrizione contemporanea di un’antica elezione dogale dà per scontata l’iniziativa dei nobili più influenti, e mette in risalto l’ispirazione divina che era sentita come un elemento capitale del processo di scelta.

Alla notizia della morte del doge, nel 1071, innumerevoli imbarcazioni cariche di veneziani provenienti da tutto il territorio lagunare si adunarono fra la chiesa del Vescovo a Castello e il monastero di San Nicolò al Lido. Fra chiesa e abbazia si levarono fervide preghiere perché Dio desse ai veneziani un doge di pace, e bene accetto a tutti. A un tratto nella moltitudine risuonò un grido generale: «Vogliamo ed eleggiamo Domenico Selvo». Subito una folla di nobili portò innanzi il designato in un battello che mosse verso San Marco alla testa di una processione di barche, fra un grande schiumar di remi e grida di plauso popolare, mentre il clero cantava il Te Deum e le campane di piazza suonavano a stormo. Entrato umilmente in San Marco il doge neoeletto prese dall’altare il bastone simbolo del suo ufficio, e quindi si recò a Palazzo Ducale per ricevere il giuramento di obbedienza del popolo adunato.

Ai tempi nostri queste operazioni mistificatorie – grazie all’esperienza che della democrazia diretta possono offrire la Confederazione elvetica ed altri Paesi – sono meno suscettibili di manipolazioni e brogli. E del resto, a questo punto, preso atto che tutti siamo soggetti a sbagliare, preferiremmo sbagliare in prima persona, anziché dover pagare per gli sbagli dei nostri rappresentanti.

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