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Rileggere oneto: con gli sbarchi in terra africana nacque l’italia moderna

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sbarchi4di GILBERTO ONETO

Si dice che chi dimentica la storia sia condannato a riviverla. In questi giorni è tutto un affannarsi attorno all’idea di andare sulle coste libiche ad affondare navi e barconi per impedire che imbarchino clandestini e ce li scarichino sulle coste. Alcuni di quelli che la propongono hanno l’aria compiaciuta di chi ha fatto una bella invenzione. Non c’è niente di nuovo né di originale: secondo un copione che si ripete da più di mille anni, dalla costa meridionale del Mediterraneo qualcuno cerca di attraversarlo, prova a sbarcare e a fare disastri, oppure scorrazza per il mare a fare bottino a spese altrui. Lo scontro si era temporaneamente risolto solo grazie alla scarsa dimestichezza con l’avanzamento tecnologico delle comunità nordafricane che – a partire dal 700 – ha dato alle flotte europee un crescente vantaggio militare nel dare alle coste africane qualche esemplare “ripassata”: l’ultima volta l’ammiraglio veneziano Angelo Emo aveva bombardato  nel 1785 i porti tunisini. Con gli europei impegnati a scannarsi nelle guerre napoleoniche gli altri hanno ripreso baldanza ma la reazione non si era fatta attendere. I primi erano stati gli americani, estranei alle guerre europee e perciò più attenti ai propri affari mediterranei. Per liberare una nave e il suo equipaggio detenuti in Libia, avevano sbarcato nel 1805 il tenente Presley O’Bannon con un gruppo di commandos. L’impresa non era stata brillantissima ma questo non le ha impedito di finire in libri e film, oltre che nell’Inno dei Marines.

Il vero colpaccio l’avevano però fatto dei “nostri”, cui nessuno ha dedicato pellicole né rievocazioni. Era il 1825 e il bey di Tripoli – attento a rigare diritto le più forti Francia e Gran Bretagna – aveva provato a fare il gradasso con il Regno di Sardegna, alzando il prezzo del pizzo per lasciar tranquilli i suoi bastimenti, che erano numerosissimi perché si era da una decina d’anni “pappato” la Repubblica di Genova, regina dei commerci e uno degli Stati più ricchi al mondo. Con soldi, commerci e navi i furbi Savoia – allora “di turno” c’era Carlo Felice – si erano procurati anche pallutissimi lupi di mare. È ad alcuni di questi che è stato chiesto di risolvere la questione.  Una piccola ma risoluta squadra di due fregate, un brigantino e quattro navi appoggio veniva spedita a Tripoli al comando di Francesco Sivori, un genovese ereditato dalla Repubblica e poi dalla marina imperiale francese, un eroe delle guerre napoleoniche che aveva già avuto a che fare con i nordafricani dieci anni prima cacciandoli da Capraia a cannonate. A fronte dell’ostinazione libica a pretendere tangenti, una notte di settembre un commando è sgusciato nel porto su alcune scialuppe incendiando tutte le navi libiche presenti, un brigantino, due golette e innumerevoli legni minori. Lo guidava un giovane tenentino, Giorgio Mameli (padre del ben più noto Goffredo), che ha perso solo tre uomini facendo uno sfracello nella guarnigione libica. Il giorno dopo l’intera squadra si è presentata davanti al porto con i cannoni bene in vista: il bey, riscopertosi pacifista, era sceso a mitissimi consigli.

sbarchi1Analoga scena si ha cinque anni dopo nel porto marocchino di El Araich, dove è tenuto il mercantile triestino Il Veloce. Il colpaccio questa volta è riuscito a una piccola squadra imperiale che ha costretto il prepotente locale a mettere la coda fra le gambe. Vienna – proprio come Torino – aveva ereditato le terre ma anche i marinai della Serenissima: erano veneti e dalmati gli uomini della spedizione, comandati  dal capitano Francesco Bandiera, anche lui padre di ben più illustri figlioli, meno accorti nelle operazioni di sbarco: un altro caso risorgimentale di frana generazionale.

Ma c’è stata un’altra spedizione, meno fortunata. Sull’onda del successo sardo, nel 1828, anche i napoletani han cercato di sistemare sbrigativamente una pendenza con Tripoli ma la flotta guidata dall’ammiraglio Alfonso Sozi Carafa aveva fatto una figuraccia tirando  cannonate in acqua e tornandosene a casa con le pive nel sacco. La vicenda è esemplare: sembra l’Italia di oggi. Niente sorpresa: tutti sapevano tutto, l’organizzazione era frettolosa e carente, l’equipaggiamento abborracciato (armi e polveri di pessima qualità: qualcuno aveva fatto il furbo negli appalti), gli uomini non erano addestrati e le navi carenti di manutenzione.  E poi la farsa delle responsabilità: l’ammiraglio e i suoi sono stati processati mettendo in piazza tutte le magagne, in un procedimento che ha evidenziato le colpe ma non ha condannato nessuno. Tutti assolti.

Era nata l’Italia moderna.

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