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Veneti, dicono sì all’indipendenza catalana e non indicono il referendum

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veneto-catalognadi ENZO TRENTIN

Un assetto di tipo federale – di cui tanto si sente parlare dagli indipendentisti veneti – presuppone anche una distribuzione delle competenze tra due livelli. L’osservazione del funzionamento dei governi federali evidenzia la tendenza ad attribuire alcune materie (esempio gli affari esteri, la difesa, la dogana, la moneta) al livello federale, altre (esempio  l’istruzione e gli affari culturali, la polizia, la magistratura e il governo locale) alle unità federate. Solitamente, inoltre, le Costituzioni dei sistemi federali elencano le competenze attribuite al governo federale e lasciano agli Stati membri, quali “poteri residui”, le competenze non attribuite.

Pierre-Joseph Proudhon è considerato il padre del federalismo integrale. Verso la fine della sua vita modificò in parte le sue originarie convinzioni nel libro «Del principio federativo». [VEDI QUI] In esso definisce il federalismo come teoria dello Stato basato sul contratto politico (o di federazione). Afferma che lo Stato, per essere coerente con il suo principio, deve equilibrare nella legge l’autorità con la libertà, e che questo si ottiene ponendo a perno del loro equilibrio il contratto politico o di federazione fra le persone responsabili. Potrebbe essere questa la “religione civile dell’umanità” per i prossimi secoli.

Un “contratto” dove i cittadini sono sovrani e stabiliscono loro la quantità e le funzioni delle istituzioni che decidono di darsi. La partitocrazia, al contrario, ha sempre cercato di far passare l’idea che il federalismo sia un “foedus” tra istituzioni. In più in Italia, poiché nessun partito è egemone nelle istituzioni, non si è mai arrivati ad un serio e coerente impianto federale, blaterando di federalismo solidale, demaniale etc.

Proudhon rimase sorpreso dalla Rivoluzione del 1848. Partecipò alla rivolta di febbraio e alla stesura di quello che definiva “la prima proclamazione repubblicana” della nuova repubblica. Tuttavia ebbe una cattiva impressione del nuovo governo provvisorio, capeggiato da Dupont de l’Eure, un politico di vecchio stampo, oltre che da liberali quali Lamartine, Ledru-Rollin, Crémieux, Burdeau e altri, che anteponevano la riforma politica a quella socio-economica che Proudhon considerava basilare.

Vale la pena, per chiarezza, ripetere la concezione della società formulata da Proudhon ad appena trenta anni d’età in «Célébration du Dinamiche»:Trovare uno stato d’eguaglianza sociale che non sia né comunismo, né dispotismo, né frazionamento, né anarchia, ma libertà nell’ordine e indipendenza nell’unità“. Dice ancora molti anni più tardi in «Del principio federativo»: “Come variante del regime liberale, ho indicato l’anarchia o governo di ognuno da parte di se stesso, in inglese self-government. L’espressione di governo anarchico implica una sorta di contraddizione, la cosa sembra impossibile e l’idea assurda. Non c’è qui che da rivedere il termine; la nozione di anarchia, in politica è razionale e positiva come nessun’altra. Essa consiste nel fatto che, una volta ricondotte le funzioni politiche alle funzioni della produzione, l’ordine sociale risulterebbe solo dal fatto delle transazioni e degli scambi. Ognuno allora potrebbe dirsi autocrate di se stesso. Il che è l’estremo opposto dell’assolutismo monarchico. (…) Malgrado il richiamo potente della libertà, né la democrazia né l’anarchia nella pienezza e integrità della loro idea, si sono realizzate in nessun luogo“.

I sinceri indipendentisti, dunque, potrebbero partire da qui per elaborare una loro ipotesi atta alla fondazione di un nuovo Stato. Senza un progetto istituzionale innovativo non si aumenta la libertà di un popolo. Diceva Hannah Arendt che il consenso a un potere permane, malgrado la sua eventuale ingiustizia, corruzione o ferocia, è dato fintanto che le sue funzioni e i suoi obiettivi sociali siano ancora visibili, poi decade, in forma lenta o catastrofica, preparando un ricambio.

Che l’Italia sia uno Stato unitario e decadente è sotto gli occhi di tutti. Ce lo conferma un articolo (L’etica della politica e la responsabilità dell’esercizio del potere) di Stefano Levi Della Torre, esponente di quella sinistra oggi egemone nel governo, laddove in  tra l’altro scrive:

  1. Ogni parlamentare guadagna in Italia quanto o più di dieci lavoratori. Il fatto è grave non tanto per il dispendio sproporzionato di risorse pubbliche, quanto e soprattutto perché una tale condizione di privilegio finisce per ottundere negli eletti la capacità di comprendere le condizioni di vita della maggioranza degli elettori.
  2. Il privilegio si riconosce molto più facilmente nel privilegio che non nella deprivazione, perciò il privilegio parlamentare inquina la funzione di rappresentanza dei rappresentanti.
  3. Se l’alta retribuzione parlamentare risulta indipendente dalla qualità delle prestazioni, si attiverà una selezione al peggio del personale politico, in cui prevarrà chi aspira a un proprio vantaggio privato su chi ambisce a svolgere una funzione pubblica e ideale.
  4. Che poi il potere legislativo possa deliberare circa i propri emolumenti ci dice che chi entra in Parlamento si trova automaticamente in “conflitto di interessi”.
  5. Come combatterà il privilegio chi si trova in condizioni di privilegio?
  6. Come combatterà il conflitto di interessi chi si trova istituzionalmente in conflitto di interessi?

5STELLEInsomma le cose le conoscono, ma di vere riforme non se ne vedono. Per questo, a nostro parere, non serve ed è anzi deleterio partecipare alle elezioni di questo Stato. Innumerevoli sono coloro che hanno percorso la strada “istituzionale” con il proposito di cambiare le istituzioni “dal di dentro”; tanto che è inutile, ovvio, scontato e superfluo citare qualche nome.

Jacopo Berti è consigliere alla Regione Veneto in quota al Movimento 5 Stelle. A suo tempo è stato eletto anche con l’appoggio elettorale pubblicamente dichiarato da Plebiscito.eu. Una bizzarria materializzata da pseudo-indipendentisti veneti.

Berti in merito ad un referendum ha recentemente dichiarato alla stampa: «Il referendum per l’autonomia differenziata è sempre stato uno dei punti cardine del nostro programma. L’autonomia come diritto imprescindibile per tutte le Regioni d’Italia è uno dei cardini della visione politica del M5s. Personalmente mi sto attivando per proporre una legge, sulla falsariga di quanto fatto dai miei colleghi in Lombardia, che indica un referendum in Veneto. Se Zaia intende temporeggiare io non so che farci, perché l’obiettivo ce l’ho chiaro in mente e vogliamo perseguirlo il prima possibile.»

A parte il fatto che parla di autonomia dopo aver accettato e contrattato i voti degli indipendentisti, se si va a guardare lo Statuto del Comune di Parma, redatto da una maggioranza politica con a capo un esponente del M5s si scopre che non c’è nulla di nuovo, bensì la semplice riconferma del sistema democratico rappresentativo.

Si è sapientemente teorizzato sull’autonomia del politico, ma se tale autonomia è autoreferenzialità, autonomia dagli interessi pubblici e collettivi, allora l’autonomia del politico non è altro che l’antipolitica, l’accaparramento privatistico della funzione pubblica. Nell’azione politica, l’etica è in primo luogo quella della responsabilità, in quanto riguarda la qualità dei fini che si perseguono, e in secondo luogo è quella dei principi, che tempera il cinismo dei mezzi necessari per realizzare i fini. Il metodo democratico implica l’attivazione dei cittadini, ma l’attivazione dei cittadini è il fine stesso della democrazia. La democrazia implica l’uguaglianza dei cittadini (nel voto, di fronte alla legge, e nei diritti), ma l’uguaglianza dei cittadini è il fine sociale della democrazia.

Ora, qual è il progetto istituzionale indipendentista Veneto che codifica espressamente gli strumenti attraverso i quali i cittadini sovrani possono intervenire legislativamente per approvare o disapprovare ciò che fanno i rappresentanti, o quando in mancanza dell’azione dei rappresentanti i cittadini possono, devono o vogliono sostituirli? Ad oggi, in proposito, non abbiamo visto nulla.

Scriveva Alexis de Tocqueville in «La democrazia in America»:Penso che gli arrivisti delle democrazie siano quelli che si preoccupano meno di tutti gli altri del futuro: soltanto il momento attuale li preoccupa e li assorbe. Essi (…) amano il successo più che la gloria. Ciò che desiderano soprattutto è l’obbedienza. Ciò che vogliono soprattutto è dominare”. E continua: “Confesso che mi fa molto meno paura, per le società democratiche, l’audacia che non la meschinità dei desideri; ciò che mi sembra da paventare di più è che (…) l’ambizione possa perdere il suo slancio e la sua grandezza; che le passioni umane si plachino e insieme si abbassino, talché l’andamento di tutto il corpo sociale si faccia ogni giorno più tranquillo e meno alto.”

Così si giunge all’Etica che è responsabilità, vale a dire un rispondere, un render conto delle proprie azioni e comportamenti. Ma render conto a chi? A se stessi o al prossimo? Ai principi che si proclamano? Alla collettività, al mondo, al proprio Dio? Ciascuna delle risposte configura un’etica diversa. Ed in proposito non possiamo che riferirci alla famosa conferenza del 1919, in cui Max Weber distingueva due polarità dell’etica, quella dei principi e quella delle responsabilità. Da un lato la fedeltà inderogabile ai propri valori, indifferente alle conseguenze per sé e per gli altri; dall’altro l’accento sugli obiettivi che ci si propone, magari con una certa indifferenza per la qualità morale dei mezzi per conseguirli.

In un nuovo Stato indipendente ci deve essere anche l’impegno permanente a una competizione globale. Per sopravvivere in una tale concorrenza è necessario che tutti gli strumenti del potere nazionale siano costantemente accessibili all’esercizio della sovranità popolare per evitare gli eventuali avventurismi (vedi la “guerra” al libico Muʿammar  Gheddafi) di una classe politica impresentabile come quella attuale. In una siffatta competizione si deve poter focalizzare l’ottica delle guerre che possiamo evitare di combattere (si vedano le missioni di peacekeeping); assicurando la stabilità, la prosperità e la libertà di una società aperta.

Ora, nel caso degli indipendentisti veneti – coloro che ci stanno più a cuore; coloro che sono considerati tra i più “evoluti” – che etica perseguono? Come sarà strutturato, se mai ci sarà, il loro federalismo? Non vorremmo, infatti, dar ragione a François de La Rochefoucauld che in uno dei suoi aforismi più folgoranti, definiva l’ipocrisia «l’omaggio che il vizio reca alla virtù»: l’ipocrita cioè si riconosce ufficialmente nello stesso sistema di valori dei virtuosi, anche se poi lo contraddice in pratica. Ed a conferma di ciò valga l’azione del Consigliere sedicente indipendentista Antonio Guadagnini e dei suoi sodali Consiglieri regionali veneti, che Benedetta Baiocchi senza nessun commento stigmatizza con il solo titolo d’un articolo: [VEDI QUI]

«Se il Veneto dice sì all’indipendenza catalana, cosa aspetta a indire il referendum?». Ciò che i politicanti ignorano o non desiderano prendere in considerazione a proposito di federalismo e democrazia diretta, è che anche durante il Medioevo, troppo spesso denigrato e usato come sinonimo di arretratezza culturale e politica, esistevano forme di democrazia  diretta che si concretizzavano all’interno del Comune medioevale. Nel periodo rinascimentale invece si realizza il passaggio alla forma di democrazia denominata “rappresentativa”, la quale troppo spesso nascondeva forme di governo autoritarie e repressive.

La democrazia diretta viene a questo punto dipinta dagli Stati moderni come utopistica, non efficiente, caotica etc.; ma basta percorrere qualche chilometro di strada per assistere in Svizzera alla democrazia sia in forma diretta che rappresentativa. La fusione delle due forme non è una caratteristica esclusiva della Svizzera ma rispetto agli altri paesi ciò è particolarmente accentuato. I cittadini, infatti, possono sia proporre leggi che respingere leggi già approvate dal parlamento. L’unico caso in cui il Parlamento può agire contro questo diritto è se la proposta legislativa è anticostituzionale o se viola il diritto internazionale.

Ma detto ciò, ancora una volta c’è da registrare la latitanza di molti pseudo-indipendentisti veneti che pretendono d’essere eletti nelle istituzioni italiane, e soprattutto non ci dicono come sarà governato il paese indipendente nel quale pretendono di portarci. E questo è tutt’altro che etico.

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