Il popolo saharawi è in guerra da 40 anni e come altri popoli la sua è una lotta per l’indipendenza. Più di 200.000 profughi vivono nei campi profughi a sud dell’Algeria, nel bel mezzo dell’hammada, la zona rocciosa del Sahara, uno dei luoghi più inospitali al mondo. Lo status di profughi se lo sono guadagnato perché quaranta anni fa i marocchini occuparono brutalmente la loro terra provocando un enorme esodo di massa. Prima dei marocchini, però, c’erano gli spagnoli che per quasi un secolo colonizzarono il Sahara Occidentale. Nel 1973 lo spirito indipendentista iniziò a farsi sentire e, così, nacque il Fronte Polisario, tuttora unico partito e organismo politico saharawi.
Il Cisp, Comitato Internazionale per lo Sviluppo dei Popoli, conduce ormai da anni progetti di cooperazione nei campi profughi in Algeria. Quasi nessuno conosce la storia di questo popolo e del Fronte Polisario, eppure è una storia importante che parla di sopraffazione di uomini su altri uomini. Somiglia un po’ alla storia della Palestina, d’altronde il desiderio di libertà è unico e assoluto, non c’è al mondo uno maggiore e uno minore. La Palestina ha una superficie di 28.000 km quadrati e una popolazione che si aggira intorno ai 6 milioni di abitanti; il Sahara Occidentale ha una superficie di 266.000 km e una popolazione di 513.000 abitanti (tra saharawi e coloni marocchini). Numeri diversi che si compensano e parlano chiaro.
Una storia affondata tra le dune
Il popolo Saharawi è un popolo arabo-berbero presente da millenni nello stesso territorio, il Sahara Occidentale. A fine ‘800 la loro terra fu colonizzata dagli spagnoli che rimasero in Africa fino al 1975 quando, attraverso un accordo tacito e illegale, abbandonarono la colonia in mano ai marocchini. Questi occuparono il Sahara Occidentale in una sola notte durante la quale vennero usate bombe al fosforo e furono ammazzati migliaia di civili. Così, i Saharawi fuggirono in Algeria dove, con l’aiuto dell’Unhcr, l’agenzia Onu dei rifugiati, allestirono dei campi profughi.
Con una risoluzione nel 1961 l’Onu inserì i Saharawi nella lista dei paesi decolonizzati aventi diritto all’autodeterminazione. Cioè, da quel momento i Saharawi potevano decidere cosa fare del loro futuro: se rimanere annessi al Marocco, ottenere l’autonomia oppure l’indipendenza. Tutte parole, nei fatti non cambiò nulla. E questo perché il Sahara Occidentale è una terra ricca di fosfati e la più pescosa di tutto il continente africano. Un luogo, quindi, nel quale si concentrano gli interessi di tutte le potenze più grandi.
La voglia di tornare a casa, però, non è mai andata via e i saharawi hanno sempre lottato per riconquistare la loro terra. Così, dal 1983 al 1987 i marocchini lavorarono alla costruzione di un muro che arginasse la riconquista. Tuttora questo muro, lungo circa 2700 km e circondato da mine antiuomo, separa il Sahara Occidentale dall’Algeria ed è presenziato da vedette marocchine che sparano a vista.
La morte di Abdelaziz e il vento del cambiamento
Il 31 maggio è morto il loro presidente, il Rais. Mohamed Abdelaziz ha lasciato i “figli del Sahara” e chi lo succederà dovrà sicuramente fare i conti con il disagio crescente tra i giovani, con la rabbia e la stanchezza di chi vuole tornare a casa e con il rischio di infiltrazioni terroristiche. Perchè, così come in Palestina, anche qui il rischio di incappare nell’estremismo islamico, per i giovani delusi, è molto alto. Tuttavia, i saharawi sono un baluardo dell’Islam moderno. Nei campi la donna ha pari dignità dell’uomo, anzi, grazie anche ai numerosi progetti delle Ong, viene coinvolta attivamente nella vita sociale dei villaggi e le vengono affidati ruoli importanti. Esiste il divorzio, esiste la libertà di culto e persone appartenenti a diverse generazioni e ceti sociali (anche nei campi profughi esistono i ceti) interagiscono e comunicano efficacemente. La loro storia è un’ennesima prova che erigere muri tra i popoli, evidentemente, non serve a nulla.