di ENZO TRENTIN
Dalla storia si può imparare a non commettere nel futuro gli stessi errori. Noi siamo quel che siamo proprio perché abbiamo vissuto determinate esperienze dalle quali siamo usciti più forti e temperati. Eppure il fatto che gli uomini non imparino molto dalla storia è la lezione più importante che la storia ci insegna. Lo scrittore statunitense Ambrose Bierce a proposito della storia scrisse: «E’ il resoconto per lo più falso di eventi per lo più irrilevanti provocati da sovrani per lo più mascalzoni e da soldati per lo più folli».
La Repubblica italiana nasce sulle ceneri della II Guerra Mondiale e secondo gli americani (i veri vincitori) avrebbe dovuto essere una repubblica federale. Infatti, la Germania dell’Ovest lo fu. Nel 1945 l’intera Europa era un cumulo di macerie dove si aggiravano torme di esseri umani smarriti e affamati. Gli USA vararono il Piano Marshall (European Recovery Plan). Fu uno dei piani politico-economici statunitensi per la ricostruzione dell’Europa dopo che l’avevano spianata con i bombardamenti. Esso terminò nel 1951, come originariamente previsto.
È indispensabile tenere a mente questo scenario per comprendere il clima in cui nacque la Costituzione “più bella del mondo”. Tsz! È un tema che abbiamo sviluppato più volte, e per questo stavolta vogliamo chiamare in campo Sergio Salvi [L’Italia non esiste – © 1996, Camunia editrice srl, Firenze] che così riassume i lavori della Costituente: purtroppo, i costituenti erano, almeno per un terzo, avvocati, esperti di diritto, o comunque laureati in legge. Fu come invitarli a nozze. Si dedicarono con lena inesausta ad azzeccare ogni garbuglio preventivo possibile.
A proposito delle Regioni Salvi scrive: discussioni sottili si intrecciarono, con sottile eleganza, su quale «potestà legislativa» le «regioni» dovessero possedere: «potestà legislativa primaria o esclusiva» (che però sapeva troppo di federalismo), oppure «potestà legislativa delegata o integrativa» (che avrebbe fatto loro alzare un po’ meno la cresta), oppure soltanto «potestà legislativa concorrente» (che le avrebbe imbalsamate nel ruolo di «filiali» o «succursali» locali dello Stato)? Alla fine prevalse, per tutte le regioni ordinarie l’ultima formula: e il sogno di un’autonomia reale svanì durante la rincorsa verso la ricetta meno compromettente per l’unità dello Stato. La limitatezza delle attribuzioni e delle competenze legislative (quale risulta dall’articolo 117 della Costituzione) e il controllo onnipotente da parte del governo (articolo 127) fecero dello «Stato regionale» una variante impercettibile dello «Stato accentrato».
L’asino cadde quando si dovette compilare l’elenco delle regioni: di quelle ordinarie, da sistemare alla svelta senza troppa fatica, ma che non si sapeva ancora quali e quante fossero. Nessun problema sorse infatti a proposito delle regioni cui andava riconosciuta una autonomia speciale imposta dalle circostanze e talvolta conseguente alla sconfitta bellica (anche se mascherata da «co-vittoria» al fianco dell’alleato dell’ultimo istante) di: Valle d’Aosta, Sicilia e Sardegna. Fu deciso semplicemente di munire quelle tra di esse che ancora non li possedevano, di Statuti speciali da approvare in seguito con leggi costituzionali ad hoc.
A proposito del Sud-Tirolo, l’abilissimo Alcide De Gasperi escogitò un trucco col quale eluse, almeno in parte, l’accordo appena concluso con Karl Gruber. Fabbricò un «mostro» (le leggi le emanava allora il governo e non certo l’Assemblea Costituente) tenendo unita la provincia di Trento, a maggioranza italiana, con quella di Bolzano (cui aggiunse, per fortuna, alcuni Comuni trentini di lingua tedesca), ottenendo così la «regione autonoma a Statuto speciale» Trentino-Alto Adige, […] Per il resto, però, buio pesto. Nessuno sapeva niente delle «regioni a Statuto ordinario» da istituire. La formazione quasi soltanto giuridica dei costituenti ne faceva degli autentici incompetenti in materie fondamentali quali la storia, la geografia, la linguistica e l’economia, così necessarie per un’identificazione corretta. Purtroppo, il «paese» (cioè i «paesi») era in mano a questi volenterosi incompetenti che avevano deciso lo Stato regionale senza sapere nemmeno quali fossero i soggetti del loro ostentato regionalismo. È questo il paradosso più paradossale della storia paradossale di uno Stato paradossale. […] L’ignoranza dei costituenti, quale emerse dai dibattiti, regnò sovrana.
Nel progetto di Costituzione presentato il 31 gennaio 1947, comparvero ex novo, rispetto al ritaglio statistico, le regioni del Salento e del Molise, mentre la regione statistica dell’Emilia venne divisa in due: Emilia-Romagna (in sostanza, le vecchie legazioni pontificie, rivolte all’Adriatico) e «Emiliano-lunense» (in sostanza, i vecchi «ducati», con la Lunigiana, di dialetto affine, che assicurava uno sbocco sul Tirreno). Queste proposte vennero comunque bocciate.
I comunisti e i socialisti aderirono, stremati da tanti discorsi inconcludenti, alla ipotesi opportunista della Dc. Venne cosi approvato a maggioranza un ordine del giorno perentorio: «L’Assemblea Costituente delibera che […] siano costituite le Regioni storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche». L’errore di Maestri [Nel 1861, Pietro Maestri, incaricato di redigere l’Annuario Statistico ufficiale del neonato e ancora smilzo Regno d’Italia, ritenne opportuno raggruppare per «compartimenti topografici» i dati raccolti.] venne paradossalmente riconosciuto come verità dai costituenti, a corto di opinioni e ormai anche di pazienza, nonostante Pietro Maestri avesse posto le mani avanti incolpando delle sue scelte (riconosciute da lui stesso arbitrarie) l’«arretratezza degli studi». Si presero insomma per «regioni storico-tradizionali» alcuni raggruppamenti di province spesso privi di ogni storia comune, di qualsiasi omogeneità di fondo e risalenti appena a settantacinque anni Prima. […]
La Costituzione, approvata dall’assemblea il 22 dicembre 1947, venne promulgata dal capo dello Stato cinque giorni dopo [grandi furono le perplessità del Presidente della repubblica Enrico De Nicola, prima di porre la sua firma in calce al documento. Ndr] ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948. Il risultato fu che nacquero, sulla carta costituzionale, diciannove regioni molte delle quali prive di ogni fondamento: e tutte prive di ogni reale autonomia. L’articolo 5 della Costituzione, nel recitare che «la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali» è come se avesse detto di riconoscere tutte le vergini in quanto madri: a condizione che restassero vergini guardandosi bene dal partorire. Il 26 febbraio 1948 vennero, con legge costituzionale, approvati gli Statuti speciali della Valle d’Aosta, della Sardegna e del Trentino-Alto Adige, regioni con le quali non si poteva, in ragione degli accordi e dei trattati internazionali, scherzare poi troppo. La Sicilia era già stata accontentata nel 1946. Il Friuli-Venezia Giulia rimase in lista in attesa degli eventi. Tutte le regioni a Statuto ordinario rimasero invece sulla carta, appunto, costituzionale. […]
La realtà fu che alla cattiva volontà, al disinteresse o meglio agli interessi della Dc, faceva da sponda la burocrazia dello Stato, passata in toto dalla monarchia costituzionale al fascismo negli anni Venti e rimasta al suo posto durante il passaggio dal fascismo alla repubblica, approfittando di «amnistie» concesse dalla repubblica con tale frequenza e liberalità da risultare pleonastiche. […]
Un’inchiesta (1995) curata dalla Lega delle autonomie locali ne dà, a distanza di decenni, una conferma sconvolgente. Soltanto il 7,3 per cento dei cittadini italiani interpellati in proposito, ha dichiarato di sentirsi «soprattutto cittadino della sua regione», contro il 44,9 per cento (e non è davvero molto) che si sente «soprattutto italiano», il 33,5 per cento «europeo» e il 13,7 per cento «cittadino del suo comune». La regione è dunque, per gli «italiani», una «regione straniera». Perché i romagnoli finiti con i loro Comuni nelle Marche o in Toscana dovrebbero sentirsi cittadini di queste regioni anziché della Romagna (sia pure aggregata all’Emilia)? Perché i lombardi della provincia di Novara, annessi con la forza dal Regno di Sardegna nel 1738-48, dovrebbero sentirsi piemontesi? Domande di questo tipo potrebbero essere almeno un centinaio. […]
Insomma, i partiti di maggioranza e opposizione erano tornati a spartirsi lo Stato italiano e le sue istituzioni senza eccessivi pregiudizi (si consolidò in questo modo la «partitocrazia»). Guardando poi alla storia delle Regioni a statuto speciale si può dire che, in tutte le periferie dello Stato italiano dotate di una identità spiccata, la lotta per la conservazione (e, se possibile, lo sviluppo) della propria identità, durante tutti gli anni della repubblica, non sia mai cessata.
Ma torniamo all’Assemblea Costituente. Il 25 giugno 1946, l’Assemblea aprì i suoi lavori. Fu deciso di istituire una commissione di 75 membri per preparare il progetto della nuova Costituzione, da discutere poi tutti insieme. Il 25 luglio, la commissione decise di dividersi in due sottocommissioni, una delle quali (la seconda) fu incaricata di studiare l’organizzazione costituzionale dello Stato. In essa, su 36 membri, soltanto due (Emilio Lussu e Oliviero Zuccarini) erano federalisti: tutti gli altri apparivano autonomisti e regionalisti generici. L’ipotesi federalista venne subito accantonata dai suoi stessi sostenitori in quanto realisticamente impraticabile.
Abbiamo ritenuto importante questo sommario excursus storico, perché tra gli indipendentisti – non solo veneti – esistono persone in buona fede che sono tuttavia portatori di un pensiero debole. Le loro gracili tesi – al posto della secessione – vogliono la chimerica conquista elettorale della Regione (Ente amministrativo italiano), per poi da lì dichiarare l’indipendenza, e successivamente addivenire ad un’Assemblea costituente. Orbene:
- Chi sarebbero i costituenti con un’adeguata cultura federalista; considerato che molti straparlano di volere un ordinamento simile a quello svizzero?
- Quali sarebbero le attribuzioni e le competenze legislative dei soggetti federati? Comuni, Province o Cantoni, federazione?
- Ad indipendenza ottenuta, il nucleo del potere burocratico rimarrà nelle mani delle stesse persone che lo gestiscono attualmente, com’è avvenuto nel passaggio tra fascismo e repubblica?
- Cosa produsse di sostanziale, a suo tempo, il «Parlamento del Nord» (sedicente federalista), insediato a Mantova il 24 luglio 1995, voluto dalla Lega Nord? E che potere ebbe, dopo che a Venezia – il 15 settembre 1996 – fu proclamata l’indipendenza della Repubblica Federale Padana?
- Quale sarebbe, domani, la dimensione economico-strutturale specifica?
- Quale identità culturale e perfino spirituale avrebbe questo nuovo soggetto istituzionale?
- Di quali appoggi o quanto meno simpatie internazionali può beneficiare il nuovo soggetto istituzionale sedicente indipendente, ma che deve ancora definire la sua architettura istituzionale, ed ottenere su di esso l’indispensabile consenso popolare?
Di domande pertinenti ce ne sarebbero molte altre, ma non vogliamo girare troppo crudelmente il coltello nella piaga.
“Se fai sempre le stesse cose, otterrai gli stessi risultati”, Albert Einstein Ipse dixit