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Le spese di minzolini sono il sintomo, non la malattia

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di MATTEO CORSINI

“Sono pronto a bere la cicuta”. Questo, tra l’altro, ha affermato Augusto Minzolini prima che i senatori votassero pro o contro la sua decadenza in applicazione della legge Severino, a seguito della condanna in via definitiva a due anni e sei mesi per peculato inflittagli per spese complessive di circa 65mila euro con carta di credito aziendale ai tempi in cui era direttore del TG1.

Minzolini è poi stato “graziato” dai colleghi, e su questo non mi interessa esprimermi.

Tra i vari commenti più o meno forcaioli o pseudo garantisti, nessuno, a mio parere, si è soffermato sulla vera questione che andrebbe risolta. Solo in un baraccone pubblico pagato dai cittadini mediante l’estorsione del cosiddetto canone è possibile che uno spenda 65.000 euro in un anno (pare, peraltro, presentando regolarmente le note spese), senza che qualcuno responsabile del controllo dei costi lo richiami all’ordine ben prima che tale cifra sia raggiunta.

Ricorrere alla magistratura quando i buoi sono già usciti dalla stalla non fa altro che aumentare il costo a carico di coloro che pagano anche il canone, oltre a intasare le aule di giustizia. In una qualsiasi azienda privata a Minzolini sarebbe stato messo un freno ben prima, ammesso che non si fossero ritenute giustificate quelle spese.

Le spese di Minzolini sono il sintomo, non la malattia.

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