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Cancel culture: la Washington University rinnega il nome del generale “Lee”

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di CHARLIE PAPINI

Robert Anson Heinlein ammoniva: “Una generazione che ignora la storia non ha passato… né futuro”. L’America, ahinoi patria del politicamente corretto, sta cancellando i simboli di un’epoca in cui una parte del paese aveva scelto di lasciare l’Unione per percorrere un’altra strada.

Il consiglio di amministrazione della Washington and Lee University ha deciso di non eliminare “Lee” dal nome dell’ateneo convertendo semplicemente a “Washington University”. L’università ha riconosciuto però che il nome Lee “può essere doloroso per coloro che continuano a soffrire del razzismo”. Gli studenti e i professori dell’università, sita in Virginia, avevano votato per il cambiamento perché il nome del generale confederato Robert E. Lee suggerisce legittimità alla schiavitù. Ricorda anche il tentativo di secessione dagli Stati Uniti facendo di Lee un “traditore” alla patria. Non merita dunque di essere celebrato, specialmente per l’angoscia che continua a causare agli afro-americani. Se Lee e il Sud avessero vinto la Guerra Civile la macchia della schiavitù sarebbe continuata molto più a lungo. Insomma, siamo alle solite: La “cancel culture” in America non riposa mai!

Durante le sommosse criminali della compagine comunista dei Black Live Matter, c’è chi s’è meravigliato della furia iconoclasta contro statue di grandi personaggi del passato, definiti arbitrariamente razzisti. Tra questi, finanche il monumeto dedicato a Thomas Jefferson (l’autore della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti), a Portland, è stato divelto dai delinquenti bianco-negri col pugno sinistro alzato.

La guerra di secessione americana non piace ai demo-repubblicani contemporanei. Si sapeva. Ancora oggi, si tratta del conflitto che ha causato più morti fra gli americani (oltre 600.000). Ancora oggi, per molti rappresenta un modo diverso di intendere Gli Stati Uniti. Per farne sparire le tracce, ormai stanno ricorrendo all’eliminazione dei suoi simboli. Iconoclastia allo stato puro, non dissimile da quella dei talebani, che in Afghanistan nel 2001 fecero saltare le statue del Buddha di Bamiyan; oppure a quella degli integralisti islamici dell’Isis, che a Palmira han fatto strazio della sua archeologia.

Anni fa, in South Carolina, il governo statale (BLM ante-litteram) ha fatto rimuovere il Dixie (la bandiera confederata) da tutti i palazzi governativi, cominciando dal centro di Charleston. Nel 2017, a New Orleans (città a maggioranza nera), hanno  rimosso statue dei personaggi che hanno rappresentato quel pezzo di storia sudista, soprattutto tra il 1861 e il 1865.  Via l’obelisco che stava vicino al quartiere francese e commemorava la battaglia di Liberty Place; via la statua di Jefferson Davis, il presidente della Confederazione sudista durante la Guerra civile, situata nel quartiere operaio di Mid-City; via la statua equestre del generale confederato Pierre Gustave Toutant de Beauregard, l’eroe della prima battaglia di Bull Run (1861) e dello scontro di Shiloh (1862), che dominava il rondò alle porte del parco cittadino; via la statua del generale Robert E. Lee (posta su una colonna alta 20 metri) dal centro della città.

La scusa è la solita: quei simboli e personaggi rappresentano la “Confederazione schiavista” (peccato che schiavisti erano alcuni stati nordisti alleati con Lincoln). Vale la pena, a tal proposito, riportare quanto scritto da Silvia Morosi e Paolo Rastelli sul Corriere della Sera, in merito a quella vicenda: “Confessiamo che qui a Poche Storie abbiamo accolto la notizia con un certo sospetto: da amanti della storia, non siamo molto favorevoli a chi si propone di cancellarla in nome del politicamente corretto, per quanto sgradevole essa possa apparire agli occhi dei posteri, che giocoforza la guardano a decine, se non centinaia di anni, di distanza. Insomma, la cancellazione della storia puzza sempre un po’, secondo noi, di orwelliano Ministero della Verità e di 1984. Nessuno può negare, per esempio, che per noi moderni c’era qualcosa di intrinsecamente inquietante nella civiltà romana antica, nella crudeltà del suo dominio, nella sua economia fondata sulla schiavitù e la conquista e nel bellicismo che fin dalla fondazione dell’Urbe portava ogni primavera le legioni a combattere i nemici della Repubblica e dell’Impero. Eppure nessuno si immagina di abbattere la Colonna traiana per rispettare i sentimenti dei romeni che vivono nella capitale. Quindi ci sembrava che a New Orleans esagerassero, anche tenendo conto che la metà dell’Ottocento e la guerra civile sono molto più vicini della conquista romana della Dacia (secondo secolo dopo Cristo)”.

Ma vale ancor più la pena, riportare le ragioni per cui i due giornalisti hanno abiurato alle ragioni di cui sopra, dopo aver letto le parole del sindaco di New Orleans, Mitch Landrieu, pubbicato sul sito di The Atlantic, proprio in risposta a chi si è detto contrario a rimuovere i monumenti in nome del passato da conservare. Afferma Landrieu: “C’è differenza tra il ricordo della storia e l’ossequio nei confronti di esso. Lee, Davis e Beauregard non combatterono per gli Stati Uniti d’America. Combatterono contro. Possono essere stati guerrieri, ma in questa causa non furono patrioti. Queste statue non sono solo pietra e metallo. Non sono solo ricordi innocenti di una storia benevola. Questi monumenti sono lì per celebrare una Confederazione fittizia e ripulita: ignorando la morte, ignorando la schiavitù e il terrore che in realtà rappresentò”.

Quindi, secondo i due “signori” del Corriere, le stragi, le carneficine, i massacri sono belli e buoni e possono e devono essere ricordati solo se perpetrati nel nome di una “certa patria”? Quindi, per loro gentaglia come Garibaldi e Bava Beccaris sono persone da ricordare perché han fatto l’Italia.

A questo punto, mi corre l’obbligo di citare lo storico Samuel Johnson, che asseriva: “Il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni”. What else?

DALLA PARTE DI LEE – Il libro

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