“Da una vita monotona e insignificante era piombato di colpo nella ‘storia’, cioè, secondo la sua concezione, in un ‘movimento’ che non si arrestava mai e in cui una persona come lui – un fallito, sia agli occhi del suo ceto e della sua famiglia che agli occhi propri – poteva ricominciare da zero e far carriera” (H. Arendt, 1963, “La banalità del male”, Feltrinelli, p. 41).
Il profilo psicologico tracciato in questo passaggio è quello di Adolf Eichmann, gerarca nazista responsabile organizzativo del rastrellamento e deportazione degli ebrei nei campi di concentramento.
Tuttavia, lo stesso profilo psicologico lo trovo adatto a molti politici contemporanei (e si, certo, a uno in particolare). In effetti, credo che, da un punto di vista psicologico, i politici possano essere divisi grossomodo in due categorie (che qui distinguo per semplicità ma che in alcuni casi potrebbero anche sovrapporsi):
- 1) i falliti che usano la politica per “essere qualcuno” (vedi profilo descritto in citazione).
2) le persone che pensano sinceramente che esista un “bene comune” e che loro, magari perché hanno avuto successo nel loro lavoro, potrebbero contribuire a realizzarlo per via politica, cioè coercitiva.
Fra queste due categorie, quella più pericolosa è la seconda, non la prima. Se i nazisti fossero stati tutti falliti come Eichmann, il nazismo non ci sarebbe nemmeno stato.
La patologia mentale da cui sono affette le persone appartenenti alla seconda categoria si manifesta nella pretesa di risolvere i problemi economici e sociali mediante la politica. In altre parole, quella patologia si manifesta nella convinzione di poter disporre di una conoscenza di cui essi non possono tecnicamente disporre. Essa infatti esiste solo in quanto è dispersa capillarmente, in ogni momento e luogo, fra i singoli individui. E nessuna “mente direttrice” né alcuna maggioranza può né potrà mai averla.
Nelle scienze sociali, questa patologia mentale specifica ha un nome: socialismo. In psicologia non credo che lo abbia. Se lo avesse, risulterebbe che la quasi totalità delle persone ne sarebbe affetta (non solo i politici, ma anche quelli che li votano pensando di contribuire, in questo modo, al miglioramento dei problemi economici e sociali).
Anche la speme ultima dea fugge i sepolcri!
Sembra un giudizio tranciante ed impietoso quello di Birindelli, ma invece non è una opinione. Piuttosto si tratta di una puntuale osservazione dei possibili e differenti esiti evolutivi che ogni individuo sperimenta all’atto di decidere quali responsabilità assumere e quali rifuggire da adulto alla luce delle proprie esperienze emotive. L’arroganza cognitiva dei socialisti o statalisti nasconde un infantilità irrisolta.
Non è proprio una malattia, è piuttosto una condizione diffusa dalla quale ci si potrebbe affrancare con sacrificio tanto minore quanto prima si avesse la fortuna di capire perché vada affrontata. …mica cotica….mica sperare…
…ergo, non c’è salvezza!
ma io spero tanto che ci sia un’altra categoria, quella degli uomini di buon senso, ma che vedano lontano… ogni tanto sembra emergere qualcuno… si spera solo che abbia anche l’intelligenza di circondarsi di persone oneste e collaborative, sempre per il fatto che un uomo solo al comando è sempre pericoloso.
L’unica medicina per curare il socialismo è la libertà vissuta e sperimentata direttamente.
Quanto all’esistenza di una patologia psichiatrica/psicologica attinente al socialismo, non può non esistere.
Basta chiedere ad uno psichiatra esperto o ad uno psicologo, non affetti essi stessi dal socialismo, per trovare la risposta.
Cioò significa che i problemi politici sono irresolubili?