Uno dei temi in cui la confusione è maggiore è quello dell’inflazione. Non solo perché la definizione mainstream confonde un effetto (la crescita di un indice di prezzi al consumo) con l’inflazione vera e propria (ossia l’espansione della quantità di moneta). Ma, soprattutto, perché viene ripetuto come un mantra che l’inflazione, purché contenuta, è benefica.
Lo fa, tra gli altri, Lorenzo Salvia sul Corriere della Sera, commentando gli ultimi dati diffusi dal’ISTAT: “Insieme all’aggiornamento del paniere, l’Istat ha comunicato ieri anche il dato provvisorio sull’inflazione di gennaio. Rispetto al mese precedente la crescita è dello 0,2%. Rispetto a un anno dello 0,8%. È il dato più basso dal dicembre del 2016. I prezzi aumentano poco e questa, a prima vista, può sembrare una buona notizia. Ma non è sempre così. Non solo perché se si guarda al cosiddetto carrello della spesa, cioè i prodotti di acquisto più frequente, i prezzi salgono molto di più: dello 0,7% rispetto al mese precedente, dell’1,3% rispetto a un anno prima. Ma anche perché un’inflazione leggermente più robusta, ma comunque sotto il 2%, potrebbe sostenere la ripresa dell’economia. E anche ridurre quel rapporto tra Pil, il Prodotto interno lordo, e il debito pubblico che rappresenta la vera zavorra per il nostro Paese”.
Non esiste alcuna scientificità nell’affermazione che una crescita dei prezzi al consumo attorno al 2% possa “sostenere la ripresa dell’economia”. Si tratta semplicemente di un livello arbitrariamente fissato dalla maggior parte delle banche centrali dei Paesi sviluppati come obiettivo della politica monetaria.
E’ poi sempre bene tenere presente che l’inflazione comporta redistribuzione di ricchezza reale, quindi è equiparabile a una imposta. A beneficiarne sono i primi percettori del flusso in aumento della quantità di moneta e, in generale, i debitori. A sopportarne l’onere sono i creditori e i percettori di redditi nominali fissi.
Quando si invoca l’inflazione per ridurre il rapporto tra debito e Pil sarebbe bene indicare in primo luogo che solo un’inflazione improvvisa e superiore alle attese erode (anche significativamente) il peso reale di un debito, altrimenti l’aumento dei tassi di interesse nominali vanifica l’effetto dell’inflazione. In secondo luogo, sarebbe bene ricordare che il debito pubblico è direttamente o indirettamente detenuto per oltre i due terzi da risparmiatori italiani. I quali sarebbero così tassati ulteriormente.
Perché una cosa è pressoché certa: se il peso del debito fosse minore per via dell’inflazione, non calerebbero altre tasse, ma aumenterebbe la spesa corrente. COme in effetti è sempre avvenuto, anche di recente. Come è già successo in passato.
Il punto centrale lo trovo nel penultimo capoverso.
Vogliono l’inflazione , i delinquenti sul ponte di comando, la vogliono fortemente.
Ma per ora, a causa di dissennate politiche monetarie e fiscali non arriva.
Da come la vedo io, arriva prima il reset planetario.