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I keynesiani insistono: sappiamo trasformare le pietre in pane

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di MATTEO CORSINI

Quasi tutti gli economisti sentono l’irresistibile tentazione di proporre ricette per risolvere (a parole) i problemi dell’Italia. Quasi sempre si tratta di versioni di keynesismo. Pierluigi Ciocca, per esempio, elenca “sette sviluppi nella politica economica e istituzionale, interna ed europea: eventi che contemporaneamente sostengano la domanda globale, consentano e promuovano la produttività”.

Non intendo passarli tutti in rassegna, limitandomi a elencarli. Si va dall’azzeramento del deficit tramite spending review e lotta all’evasione fiscale, ai sempreverdi investimenti pubblici, con tanto di reiterazione di richiesta di scorporarli dal computo del deficit.

Come da ritornello keynesiano: Gli investimenti in infrastrutture costituiscono l’unica misura di bilancio capace di sostenere tanto la domanda quanto la produttività. Caduti a meno del 2% del Pil (da 54 miliardi nel 2009 a 33 lo scorso anno), sono da riportare a oltre il 3% del Pil, pianificandone per tempo la migliore attuazione secondo una precisa scala di priorità economico-sociale. Il loro moltiplicatore della domanda (1,2/1,5) è doppio rispetto a quello dei consumi pubblici, dei trasferimenti, della detassazione. Come chiarito da Keynes, in larga misura si autofinanziano”.

Come ho già avuto modo di osservare, in fin dei conti i “barbari” (copyright del Financial Times) che hanno redatto il “Contratto per il governo del cambiamento” dicono le stesse cose, semplicemente in modo più sgangherato e aumentando il numero del mitologico moltiplicatore. E pazienza se, contrariamente a quanto “chiarito da Keynes”, l’autofinanziamento resti nella teoria e non si traduca in pratica. Non dubito che da noi ci sia anche un problema di “pianificazione”, ma anche avendo persone più capaci/oneste a prendere le decisioni, non si tratterebbe di esseri onniscienti.

Saltando il solito passaggio sul Sud Italia che deve diventare la nostra Florida, ecco un altro classico: la sostituzione del rigore con le politiche per la crescita. “Nell’Eurozona all’attuale rigore alla Hayek occorre sostituire il rigore alla Keynes: equilibrio di bilancio, sì, ma unito a investimenti pubblici utili, cospicui e capaci di autofinanziarsi, ammettendo la golden rule per la loro copertura con debito all’avvio”.

Quella che Mises definiva la promessa di trasformare le pietre in pane. A causa della quale i pagatori di tasse si stanno spaccando i denti da 80 anni.

Ma secondo Ciocca è perché Keynes è stato letto male o non capito: Il punto chiave è che Keynes non è affatto lo spendaccione inflazionista considerato da chi l’ha studiato su mediocri manuali, non ha letto i suoi scritti o non li ha compresi. Keynes aborriva i disavanzi pubblici di parte corrente, lo “scavare le buche”, il debito dello Stato. Predicava investimenti pubblici, col bilancio in tendenziale equilibrio. Poneva un problema di composizione della spesa: meno uscite correnti, risparmio non negativo, al limite maggiori imposte se impiegate in infrastrutture”.

Posso concedere che probabilmente Keynes non avrebbe voluto avere nulla a che fare con diversi keynesiani di ogni epoca. Ma è Keynes, in quello che indubbiamente è il suo principale lavoro, ossia la “Teoria Generale” (su occupazione, interessi e moneta), a ritenere giustificato il ricorso allo scavare buche o a indire cacce al tesoro di bottiglie riempite di banconote, o ancora a provocare, mediante la soppressione del tasso di interesse, l’“eutanasia del rentier”. E qualcosa in fin dei conti deve essere sbagliato se le applicazioni pratiche hanno spesso finito per moltiplicare i debiti e non il Pil.

Per di più, partendo da un debito che supera il 130% del Pil, come si può credere che la soluzione passi da altro debito? Basta un errore nella pianificazione (ahimè tutt’altro che improbabile) per avere un effetto a palla di neve sul rapporto tra debito e Pil. Ma se non lo si è voluto capire finora, non lo si capirà mai.

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