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Il destino del liberalismo, omaggio a lorenzo infantino

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di PAOLO L. BERNARDINI

Il liberalismo classico e il pensiero libertario, le scuole, “en gros”, di Hayek e Mises rispettivamente, non godono di grande attenzione al momento; se questo è parzialmente vero per quel che riguarda l’ambito dottrinale, accademico, purtroppo è invece del tutto vero per quel che riguarda le politiche reali: come una specie di carota viene sbandierata la “flat-tax”, ad esempio, ma in un contesto di normative sempre più statalistiche e centralistiche: dal reddito di cittadinanza alla crescita progettata del debito pubblico e dell’IVA, alla mancata privatizzazione di società collassate, agli interventi per il risanamento di banche dissestate.

Per questo (tra l’altro) occorre guardare con estrema simpatia e leggere con attenzione il volume che Raimondo Cubeddu e Pietro Reichlin hanno molto meritoriamente dedicato a Lorenzo Infantino (“Individuo, libertà e potere”, Rubbettino 2019, pp. 268, 28 euro), in occasione dei settanta anni dello studioso. Un Maestro. Con coerenza straordinaria, nei decenni di insegnamento alla LUISS, Infantino ha condotto ricerche di altissimo profilo sulla storia e il presente del pensiero liberale, con pubblicazioni in varie lingue, e di eco internazionale. Difficile ricordare tutti i suoi lavori, ma basti citare “L’ordine senza piano”, del 1995, poi tradotto da Routledge, (“Individualism in Modern Thought: From Adam Smith to Hayek”, Londra-New York, Routledge, 1998), e “Ignoranza e libertà” del 1999, tradotto poi in spagnolo ed inglese (“Ignorance and Liberty”, Routledge, 2000). I settanta anni sono sempre un bel traguardo per un accademico, anche se la vita scientifica e talora quella dell’insegnamento possono continuare ben oltre tale limite, ormai. Per fortuna.

Il libro contiene studi brevi di vari autori, da Enrico Colombatto a Marcello Messori, da Alessandro de Nicola ad Alberto Mingardi, da Simona Fallocco a Giuseppina Gianfreda, insomma almeno due generazioni di liberali classici e libertari italiani, economisti, scienziati sociali, filosofi della politica, storici, che tengono viva la fiammella del liberalismo mentre una schiera di venti maligni vorrebbe spegnerla da ogni parte. Leggere questi saggi significa immergersi, occorre dire da subito, in una “Scuola” non certo morta, anzi vivissima, attenta a cogliere le sfumature, o addirittura l’essenza “liberale” di pensatori che magari non furono immediatamente ascritti alla scuola, come Gianfranco Miglio (e illuminante il saggio sulla natura liberale di Miglio scritto qui dal suo allievo Marco Bassani, saggio vivacizzato da commoventi ricordi personali). Il liberalismo è attento ai nuovi sviluppi del mondo, e si parla ad esempio della natura incerta delle cripto-valute come “moneta liberale”, in un bel saggio di Salvatore Nisticò, da leggersi a mio avviso congiuntamente con quello di Pierpaolo Benigno su “Moneta e quasi moneta” (il libro è diviso in due sezioni, una economistica, una di scienze sociali, ma ovviamente i punti di incontro e convergenza tra le due sezioni sono infiniti). Mentre illuminanti sono le pagine di Reichlin sulla sovranità monetaria, che mettono bene in guardia dai potenziali eccessi del “sovranismo”.

La lettura di questo libro lascia certamente aperto ancora una volta l’interrogativo fondamentale: ma perché questo pensiero così puro, così umano, così onesto, non riesce ad affermarsi nel mond0? Perché il mondo è ancora preda dell’ideologia collettivistica, fomite di già sperimentati disastri, distruzioni, stragi? Perché perfino i movimenti indipendentistici, dalla Catalogna alla Scozia, sono in realtà vicini ad un socialismo collettivistico, sia pur di marca scandinava, piuttosto che non al liberalismo classico? (Non possono esserlo certo al libertarismo puro, perché quest’ultimo, nelle sue istanze radicali, è contro l’idea stessa di stato e non vuole, puro e duro qual è e qual è giusto che sia, metterne certo al mondo di nuovi). Il pensiero libertario è un pensiero fondamentalmente ottimistico, e questo lo mettono bene in luce, si può dire con giovanile entusiasmo, Rosamaria Bittetti e Federico Morganti, nel loro saggio in questo volume: il mondo grazie al libero mercato, alla globalizzazione, agli “sforzi decentrati di individui che servono i propri fini” (p. 33) ha fatto passi avanti da gigante, sottraendo alla povertà miliardi di individui. Ma il “declinismo” serve fondamentalmente uno scopo: quello di giustificare l’intervento dello stato e la moltiplicazione dei parassiti, che purtroppo talvolta eccede quella degli uomini (e donne) emancipati dal libero mercato.

Sono tutti scritti interessanti e ricchi di prospettive, quelli che il Professor Infantino ha ricevuto in suo onore. Simona Fallocco, ad esempio, ci porta ad una riconsiderazione, sulla scorta di Mises e Popper, della bontà necessaria del denaro, oltraggiato da Marx – che vivendo delle rendite della famiglia Engels mai nella vita ha dovuto veramente procurarselo – ma difeso dalla Scuola Austriaca, magari non nella forma di “moneta-fiat”, come direbbe Giovanni Birindelli, cosa su cui occorre molto riflettere. Molto importanti, in un quadro globale che si interroga sulla necessità del liberalismo, le riflessioni di Salvatore Carruba, che parla di “prateria per l’azione”, per i liberali (p. 139). Naturale, perché le minacce per l’individuo sono sempre più forti, i controlli digitali sempre più sottili ed esasperanti, tali per cui non solo un giorno ci chiederemo “Ma io sono davvero libero?”, “In che misura sono libero?”, per arrivare inevitabilmente, tragicamente a chiederci, in fine: “Ma io sono davvero io?”. La progressiva privazione di libertà non può che giungere ad una modificazione ontologica dell’essere umano: per usare la parola cara ad anti-liberali come Hegel e Marx, la reificazione dell’individuo è proprio l’esito ultimo del collettivismo.

Se l’individuo è sempre meno libero, alla schiera dei pochi liberi si affiancano le moltitudini bibliche dei parassiti: e un acuto saggio di Nicola Iannello ci conduce nei meandri contemporanei e nelle origini storiche del parassitismo, per concludere con sicurezza:

“Il parassita alligna dove l’ospite offre la vita più comoda. Il progresso economico delle società occidentali è stato un formidabile incentivo al perfezionamento degli strumenti del parassitismo. La politica aggiorna di continuo gli strumenti per vivere del lavoro produttivo. Se non avremo il coraggio di guardare ai sistemi democratico-rappresentativi come formidabili strumenti di redistribuzione parassitaria del reddito che a lungo andare minano le fondamenta della produzione della ricchezza, mancheremo anche delle capacità propositive per elaborare istituzioni nuove e meno predatorie che evitino il collasso delle società in cui viviamo” (p. 189).

Molto ci sarebbe ancora da dire su scritti che vibrano di passione individualistica, che parlano di tradizioni passate e problemi presenti (esemplare lo scritto di Gianfranco Fabi sul populismo, chiave interpretative per i “populismi” europei che imperversano da almeno un decennio), che riabilitano la corrida con la brillante rilettura di Ortega y Gasset data da Alberto Mingardi (Ortega è uno degli “auctores” di Infantino, ne scrisse tra l’altro un’introduzione ancor oggi utilissima nel 1990, pubblicata da Armando); che insomma ci dicono che il liberalismo classico e il pensiero libertario sono ancora vivi. “Alive and well”. Vivi e vegeti, almeno come pensiero, mentre il liberalismo è fatta oscenamente bandiere di coloro che nulla ne sanno, affamati di più Stato e più Europa, ovvero più Unione Europea, che vuol dire, per l’appunto, più Stato (e conseguentemente meno libertà). Ma ancora Bassani qui ci ricorda che il giovane Miglio crebbe in un “milieu” culturale italiano (ma anche europeo) dove già del liberalismo si faceva il peggior strame ideologico: liberal-socialisti, e perfino liberal-comunisti, perché mettere la parolina magica “libertà” perfino nelle peggiori dittature rende. Li faremo maggiormente schiavi, coll’illuderli del contrario: che li renderemo invece maggiormente liberi.

Il volume si conclude con un saggio di Alessandro Vitale sulla democrazia, questo “Dio che ha fallito”, secondo H-H. Hoppe, ma che in realtà, per gli scopi in cui era nata da Rousseau ai rivoluzionari francesi, ha perfettamente funzionato: la realizzazione di una casta di privilegiati (parassiti di primo livello) che vivono grazie ad una massa di disgraziati (parassiti di secondo livello) che forniscono ai primi consenso e che dai primi, in cambio, ricevono i mezzi di sussistenza senza che del loro lavoro – i famosi forestali della Calabria, più numerosi delle cavallette bibliche e certo delle api in questo 2019 che vede il prezioso insetto estinguersi) – si abbia veramente bisogno. Lo stato che in omaggio alla concezione che ne aveva il buon Locke “si limita”, nel corso del Novecento, mostra bene Vitale, non ha fatto che espandersi, come è nella natura di chi detenendo il monopolio della violenza, non ha nessun freno al proprio naturale moto di espansione. Del resto, a ben vedere, “La storia dello Stato dimostra che i governanti si sono sempre comportati in questo modo e che i loro ideologi hanno saputo legittimare ex post tale espansione” (p. 259).

Lo “stato dell’arte” del liberalismo (come pensiero e metodo) in Italia è dunque ben rappresentato da questo volume. Ventisette autori sono senz’altro un bel numero. Forse avrebbe giovato mettere alla fine una bibliografia degli scritti di Infantino, ma in ogni caso si respira l’aria fresca e liberatrice delle dottrine di Mises, Rothbard, Hayek, dall’inizio alla fine di 268 dense pagine. La prefazione di Florindo Rubbettino mostra bene come l’occhio dell’imprenditore libero dal vincolo dello stato non possa che guardare con simpatia al pensiero liberale classico e libertario.

Il libro si può ordinare a libreriadelponte@tiscali.it

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