La legge di bilancio per il 2019 prevedeva quest’anno 18 miliardi (ossia circa un punto di Pil) di entrate da privatizzazioni. Dopo ormai sette mesi lo stato dell’arte è il seguente: fasi preliminari per dismettere immobili dai quali lo Stato spera di incassare circa un diciottesimo di quella cifra e per il resto il nulla assoluto.
Almeno se si vuole parlare di cose concrete, mentre se ci si accontenta del mantra “stiamo lavorando” che ogni esponente del governo utilizza in risposta a chi chiede a che punto sia il dossier delle privatizzazioni (e non solo quello, a dire il vero), allora si può stare tranquilli.
Il ministro dell’Economia, bontà sua, ha ammesso: “Non sappiamo se raggiungeremo quella quota”, ossia i 18 miliardi. Aggiungendo poi: “Stiamo lavorando, non possono esserci indiscrezioni perché coinvolgono aziende quotate sui mercati.”
Senza girarci tanto attorno, l’unico modo per raccogliere quella somma sarebbe cedendo la quasi totalità delle quote ancora detenute in Eni, Enel e Poste Italiane. Dato, però, che lo Stato non vuole realmente privatizzarle, lo “stiamo lavorando”, in perfetta continuità con i governi precedenti, consiste nel trovare il modo, coinvolgendo soprattutto Cassa Depositi e Prestiti, di cedere le quote senza perdere il controllo effettivo.
Ovviamente l’ostacolo è che questo gioco di carte rischia di scontrarsi con l’Europa, che potrebbe finire per riconsiderare CDP nel perimetro delle pubbliche amministrazioni, con annessa esplosione del debito pubblico e addio sogni di gloria governativi.
Di qui la prudenza di Tria, certamente stonata rispetto alla spudoratezza dei capi politici al governo, che sarebbero in grado di dare per certo il raggiungimento dell’obiettivo anche se fossimo a Natale e non a fine luglio.