di ENZO TRENTIN
Fu Paolo Bonacchi che letteralmente mi trascinò da lui, perché ad una conferenza, quando fu aperto il dibattito con il pubblico, Bonacchi fu talmente convincente che anche Lucio Lami abbracciò l’idea federalista. Lami è stato un giornalista, scrittore e paroliere italiano. Io lo conoscevo solo attraverso un suo libro edito da Mursia nel 1970: “Isbuscenskij, l’ultima carica”. Era la conseguenza del fatto che nel 1959/60 aveva prestato il servizio militare a Merano come sottotenente nel Savoia cavalleria. Qui si appassionò alla storia del glorioso reparto ed ai cavalli portandolo in anni successivi a scrivere libri su questi argomenti.
Lami aveva inseguito tutte le guerre del mondo. Nel 1974, e per vent’anni, fu inviato speciale per il neonato “Il Giornale” fondato da Indro Montanelli. Fece il mestiere che aveva sempre voluto fare: viaggiare, seguire il giornalismo d’inchiesta, essere corrispondente di guerra. All’epoca i giornalisti non erano ancora (come lo sono oggi) embedded, cioè intruppati e portati a vedere ciò che interessa uno dei paesi belligeranti. Entrò così da clandestino in Vietnam, fu presente in Cambogia, nel Laos, nelle due guerre del Golfo e in Libano, attraversò a piedi l’Afghanistan occupato dai russi, è in Ciad. Rivela che Fidel Castro aveva le basi militari in Cile durante la dittatura di Pinochet. Fu ferito tre volte. Visse i suoi ultimi anni in un convento e si spense alle 14.30 del giorno di Pasqua, il 31 marzo 2013, all’età di 76 anni. Aveva vinto numerosi Premi riservati agli inviati speciali. Fu anche docente di Giornalismo all’Università Cattolica di Milano. Nel 1997 (oramai in pensione) rispolverò e diresse una vecchia testata: “L’Uomo Qualunque”. Vi collaboravano tra gli altri Sergio Ricossa, Marco Vitale, Alberto Mazzuca, e moderatamente anch’io.
In questi giorni, cercando di disfarmi di vecchie carte, sono incappato in un articolo di Angelo Mori pubblicato sul numero 3, anno I, del 5 dicembre 1997, de “L’Uomo Qualunque”, che qui ripropongo integralmente al fine di far constatare ai lettori come l’Italia di ventidue anni fa sia speculare a quella dei giorni nostri, e proprio per questo rafforzare la convinzione che solo con l’indipendenza dei nostri territori usciremo da quest’incubo socio-politico. Ecco l’articolo.
Se siete stanchi di cercare gli avvenimenti nelle montagne di bla bla bla della stampa di regime, accomodatevi e facciamo il riassunto delle puntate precedenti, cioè di quanto è avvenuto negli ultimi giorni.
- Primo. II governo nuota nel guano: ce l’hanno immerso giustamente gli allevatori ai quali auguriamo di non esaurire la materia prima, anche quando avranno raggiunto un accordo più o meno definitivo.
- Secondo. L’opposizione ha avuto un ictus, si è opposta per sessanta ore, poi, esausta, si è detta disponibile all’accordo sulla Finanziaria. Lo ha fatto per bocca di Fini, il più duro del manipolo. La legge sull’Iva è passata con la benedizione del centro-destra che non ha partecipato allo scrutinio. A Montecitorio la vendita dei pannoloni è aumentata vertiginosamente.
- Terzo. D’Alema ha proposto il sindacato unico con alla testa l’ulivista D’Antoni, celebre per le sue cravatte: è una formula nuova, detta “comunismo dal volto catto-umano” che tiene conto del nuovo trend in fatto di fusioni di capitali.
- Quarto. Dopo aver munto mezza Italia con la vendita delle azioni Telecom, grazie al fortunato slogan “Privatizziamo” (ma che ne dice l’authority sulla pubblicità?), gli ex democristiani e i baroni del parastato fanno sapere che non si è privatizzato nulla e che Agnelli e gli altri sono solo prestanome del governo Prodi. Per questo il presidente Guido Rossi se n’è andato e Cuccia, per la prima volta in vita sua, ha sorriso.
- Quinto. D’Alema ha dichiarato guerra ai giornalisti. Dopo averli arruolati quasi tutti, trova che non abbiano bisogno di un Ordine, che siano ingombranti e soprattutto che siano troppo di sinistra. Questa sua guerra contro il cavaliere inesistente è la cosa più comica dopo lo sketch dei fratelli De Rege. Bruno Tucci, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Lazio, ha chiesto 1’espulsione del leader del Pds dagli albi giornalistici. È toccata a lui la battuta: “Vieni avanti, cretino”. Ma era scritta nel copione. E i copioni li riscrive la Rai.
- Sesto. A proposito di Rai, grande scandalo perché i vertici della stessa sono stati invitati a colazione da Prodi. Questo generalmente non succedeva: di solito ricevevano la scodella in viale Mazzini. Il problema è che tutti quelli che hanno inviato scodelle adesso vogliono contare. E la bega riguarda gli equilibri interni alla sinistra che, com’è noto, c’entrano con l’informazione come i cavoli a merenda.
- Settimo. La Corte dei Conti scopre che i bilanci rosei dello Stato sono truccati. Tremonti parla di colpo di Stato economico. Tutto per entrare in Europa, si capisce.
Ecco, in sintesi, l’operato settimanale dei nostri statisti. Non ci resta che sperare che Como, col 53% di astenuti dal voto, faccia scuola. È su queste azioni storiche che l’Ulivo fonda la consapevolezza di durare a lungo al governo. A renderla verosimile è il potente operato dell’opposizione. Se vanno avanti così non ci resterà che disertare le urne. A milioni. Che ci vadano loro, in Europa, questi cialtroni, ma che si sappia che rappresentano solo loro stessi.
A questo punto se cambiamo i nomi, ma teniamo ben a mente le circostanze e gli atteggiamenti dovremmo concludere – come detto in premessa – che non ci resta che l’indipendenza.
Andare e annullare la scheda non è una valida alternativa?
è una alternativa
Andare a votare significa legittimare il potere. Annullare la scheda elettorale POTREBBE essere “rischioso”. Infatti, quando si votò il referendum per repubblica o monarchia, il Ministro degli interni era Palmiro Togliatti (Alias Ercole Ercoli) “padrone” del Partito comunista italiano, e di stretta osservanza staliniana. Ebbene, il segretario di Togliatti (Maurizio Ferrara), in una intervista di circa 15 anni fa, confessò che al Ministero degli interni avevano pronte 3 milioni di schede bianche. Si giustificò più o meno così: eravamo “democratici”, ma non sciocchi.
Sono d’accordo. Andare a votare significa partecipare a quel gioco e quindi legittimare il potere dello stato.
Non partecipare al voto solleva l’animo.