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Colonialismo e dintorni: perchè l’algeria si e il veneto no

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di ENZO TRENTIN

Questo articolo vuole essere una speculazione intellettuale sul perché alcuni territori sono legittimati ad affrancarsi dal colonialismo autodeterminandosi, e ad altri viene negato pur ricorrendo analoghe condizioni. Fatto questo incipit è necessario analizzare in primo luogo cos’è il colonialismo.

Il moderno colonialismo europeo inizia nel XV secolo e può essere suddiviso in due fasi: dal 1415 al 1800; dal 1800 al 1962 circa. Esso consiste nell’occupazione e nello sfruttamento territoriale realizzati con la forza dalle potenze europee ai danni di popoli ritenuti arretrati o selvaggi. Analizzeremo, per brevità, solo un episodio della seconda parte del fenomeno rilevando che il problema della giustificazione morale e politica dell’espansione coloniale europea negli altri continenti ha accompagnato, senza trovare una definizione univoca e unanime, le vicende del fenomeno. Successivamente, anche sulla base d’impegni internazionali (primo di essi l’Atto generale della Conferenza di Berlino del 1885) sono stati riconosciuti e considerati, almeno nella teoria, i diritti delle popolazioni locali. Da allora, in generale gli orientamenti della politica coloniale possono essere classificati in tre modi: assoggettamento, inteso come ‘dispotismo illuminato’ o paternalistico; assimilazione, tendenza a parificare le colonie e i suoi abitanti con la metropoli e i suoi cittadini; autonomia, sistema che, limitando l’ingerenza delle autorità coloniali nella struttura sociale della popolazione locale, mirava a preparare la progressiva assunzione da parte degli elementi locali di responsabilità amministrative e politiche.

Ciò premesso analizziamo solo la storia dell’Algeria. Essa fu, fin dall’antichità, fortemente legata alle vicende dell’area del Mediterraneo. Controllata in successione da Fenici, Cartaginesi, Romani, Vandali e Bizantini. La regione divenne parte dell’impero ottomano, per entrare il 21 dicembre 1847 nei domini francesi.

I francesi ebbero sull’Algeria un’influenza politica, culturale e demografica che ha pochissimi paralleli nella storia del colonialismo in Africa, tanto che nel 1947 l’Algeria sarebbe stata parificata al territorio metropolitano francese. Uno degli effetti più evidenti è la diffusione della lingua francese, che Kateb Yacine definì “bottino di guerra”. Fu istituita un’assemblea algerina e concesso il diritto di inviare deputati all’Assemblea nazionale. Il diritto di rappresentanza era però concesso in egual misura alla maggioranza africana ed alla minoranza di origine francese, che in buona sostanza rimaneva una élite privilegiata.

In Algeria a cavallo tra la fine del 1800 ed i primi anni del 1900 diventa operativa la “Dottrina Lyautey”. Tale concezione consisteva nello strisciante ampliamento del territorio africano sotto dominazione coloniale francese, che si materializzava in forma molto semplice. Analogamente a quei contadini che spostavano periodicamente le pietre di confine della loro proprietà, i francesi usavano la Legione Straniera che costruiva fortini sempre più isolati e sempre oltre i confini allora previsti. Al tempo il generale Louis Hubert Gonzalve Lyautey aveva affermato che: «la Francia deve essere una grande potenza musulmana.»

La comunità europea in Algeria comprendeva gruppi di varie origini, a forte dominante mediterranea: francesi (in particolare còrsi), spagnoli, italiani, maltesi, ma anche tedeschi e svizzeri. A questi si aggiungeva l’elemento di origine locale costituito dalla comunità ebrea algerina, completamente assimilata a quella francese, di cui aveva adottato la cultura e le avversioni. Benché i coloni di nazionalità francese fossero la maggioranza, i non francesi costituirono a lungo una quota importante di questa popolazione, fino a raggiungere il 49% nel 1886. Gli appartenenti alla comunità europea vennero presto denominati “Pieds-Noirs”. Nel 1959 erano circa 1.025.000, ovvero il 10,4%, pressati dalla crescente espansione demografica della popolazione musulmana. Hanno un ruolo importante nell’economia algerina: forniscono circa la metà del fabbisogno alimentare. Trasformarono il territorio che dalla costa s’inoltra per circa 200 chilometri in una sorta di immensa fattoriagiardino. Pur essendo territorio metropolitano francese gli autoctoni sono dispregiativamente chiamati raton (giovane ratto). Eppure questi soggetti avevano combattuto, sofferto, e si erano sacrificati in tutte guerre combattute dall’Armée française.

A questo punto è necessario fare una digressione: secondo molti storici la fine del colonialismo ha inizio con la sconfitta dell’Armée nella battaglia per Dien Bien Phu. Circa 5.000 dei 20.000 soldati francesi che vi avevano preso parte erano morti in combattimento; si trattava in larga parte di paracadutisti e volontari della Legione straniera, ma erano presenti unità coloniali di tutta l’Union française.

Tra di essi, un battaglione del 7º reggimento “tirailleurs” algerini occupava il caposaldo Gabrielle. I nordafricani, combatterono fino all’ultimo e dei circa 850 effettivi, solo 170 rientrarono nelle postazioni della piazzaforte assediata. Dopo 56 giorni di sanguinosi scontri, nel piovoso pomeriggio del 7 maggio 1954, il Generale Giáp, capo militare del Việt Minh di Ho Chi Minh, venne informato che i francesi avrebbero cessato
il fuoco per le ore 17:30.

I prigionieri presi a Dien Bien Phu furono il numero più alto che i Việt Minh riuscirono mai a catturare, un terzo del totale dei prigionieri presi nell’intera guerra. I prigionieri vennero divisi in gruppi. Quelli sani e i feriti in grado di camminare vennero costretti a una marcia forzata di quasi 400 km, fino ai campi di prigionia. Centinaia morirono di malattie lungo la strada. Ai feriti, contati in 4.436, furono date cure di base (triage) fino all’arrivo della Croce Rossa, che ne rimosse 838 e diede una migliore assistenza ai restanti, i quali vennero anch’essi inviati alla detenzione.

Durante tale cattività, i Việt Minh furono molto duri con i paracadutisti e i legionari stranieri, poiché s’erano dimostrati i combattenti più duri e irriducibili. Gli altri, i «coloniali», furono oggetto di una rieducazione politica o lavaggio del cervello. Molto semplicisticamente si può dire che li fecero ragionare in questo modo: «tu combatti, soffri e muori per la Francia, ma come noi non sarai mai francese. Quindi, perché sacrificarsi per chi ti suborna. Ovvero la Francia che ti induce, con offerte e promesse, a un comportamento contrario al tuo dovere e interessse?» Il successivo 12 luglio 1954, dopo nove anni di combattimenti, si concludeva anche formalmente la guerra d’Indocina. La Francia lascia definitivamente l’Indocina il 25 settembre 1954. Il 1º novembre 1954 è la data d’inizio della guerra di indipendenza algerina. Chi guidava il braccio armato dell’FLN erano proprio i reduci algerini dei campi di concentramento Việt Minh.

All’inizio del 1957 ci fu la battaglia di Algeri, combattuta e vinta dalla Decima Divisione Paracadutisti del generale Jacques Massu. In seguito magistralmente documentata dall’omonimo film (del 1966) di Gillo Pontecorvo. La guerra d’indipendenza algerina tuttavia si concluse il 19 marzo 1962. In tale modo il colonialismo era praticamente finito, e oggi sopravvivono altre formule sotto la definizione di neocolonialismo.

Nel corso di questo conflitto ci fu l’importante ruolo dei “Pieds-Noirs”. Essi erano stati sostenitori del ritorno di de Gaulle alla politica. Si sentirono acutamente traditi dal suo consenso all’indipendenza dell’Algeria, consenso che non teneva in alcun conto le conseguenze umane della scelta politica. Come conseguenza diedero vita all’Organisation de l’armée secrète (OAS).

Secondo gli indipendentisti veneti (che definiscono i “rappresentanti” indigeni nelle istituzioni italiane dei Quisling) lo Stato italiano ha perpetrato nei confronti dei Veneti un vero e proprio genocidio culturale, storico, linguistico, e una predazione economica non molto dissimile da quelli subiti dagli algerini. Anche i veneti come gli algerini si sono sacrificati nelle guerre volute da Savoia con il loro tricolore. Similmente agli algerini anche i veneti hanno i loro “Pieds-Noirs” identificabili negli appartenenti alla burocrazia, e alla dirigenza delle istituzioni in mano a personale non sempre autoctono. Però in dissonanza con gli algerini i “Pieds-Noirs” del Veneto non producono che soffocanti e infinite pratiche amministrative, dispendiose e poco efficaci. Inoltre si avvalgono di rendite di posizione inaccettabili.

A differenza di questi ultimi e degli algerini; i veneti appartengono a una civiltà millenaria documentata sia nel museo archeologico di Quarto d’Altino [VEDI QUI] che nel Museo nazionale Atestino di Este [VEDI QUI] senza trascurare la storia e la civiltà anch’esse millenarie della Repubblica Veneta o di San Marco.

Come gli algerini gli indipendentisti veneti basano le loro rivendicazioni sull’articolo 1.2 della Carta della Organizzazione delle Nazioni Unite (firmata a San Francisco il 26 giugno 1945 ed entrata in vigore il 24 ottobre 1945). E sul principio di autodeterminazione dei popoli che sancisce l’obbligo, in capo alla comunità degli Stati, di consentire che un popolo sottoposto a dominazione straniera (colonizzazione o occupazione straniera con la forza), o facente parte di uno Stato che pratica l’apartheid, possa determinare il proprio destino in uno dei seguenti modi: ottenere l’indipendenza, associarsi o integrarsi a un altro Stato già in essere, o, comunque, a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico; la cosiddetta:

Da sinistra i paracadutisti Ten. Col. Marcel Bigeard, e il Colonnello Pierre Langlais. Furono fatti prigionieri il 7 maggio 1954 dopo la caduta di Dien Bien Phu. Rilasciati quattro mesi più tardi, Bigeard dirà: «se la prigionia fosse durata ancora un mese saremmo tutti morti.»
“autodeterminazione esterna”.

Tale principio costituisce una norma di diritto internazionale generale, cioè una norma che produce effetti giuridici (diritti e obblighi) per tutta la Comunità degli Stati. Inoltre, questo principio è anche una norma di ius cogens, cioè diritto inderogabile, un principio supremo e irrinunciabile del diritto internazionale, per cui non può essere derogato mediante convenzione internazionale.

Come tutto il diritto internazionale, il principio di autodeterminazione viene ratificato da leggi interne: in Italia vi è la Legge n. 881/1977. Nell’ordinamento italiano poi il principio vale come legge dello Stato che prevale sul diritto interno (Cass. Pen. 21-3-1975), e il decreto legislativo n. 212 del 2010, che rispettivamente impongono la facoltà agli autodeterminati di trattenere le proprie risorse economiche, il difetto assoluto di giurisdizione dello Stato italiano e a cascata di tutti gli enti per esso operanti.

Non bastasse il massacro economico, culturale, storico e linguistico, Allen Buchanan nel libro «SECESSIONE – Quando e perché un paese ha il diritto di dividersi» (© 1994 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano) nel Capitolo II, dimostra che un gruppo può lecitamente opporsi allo Stato con la forza qualora si trovi a essere vittima di una ridistribuzione discriminatoria – ossia, qualora le politiche economiche o fiscali dello stato operino sistematicamente a detrimento di quel gruppo e a beneficio di altri, in assenza di una valida giustificazione morale per questa difformità di trattamento. In terzo luogo, ritiene che, a certe condizioni, un gruppo sia legittimato a secedere quando ciò risulti necessario alla tutela della sua particolare cultura o forma di vita comunitaria. Ciascuna di queste conclusioni rappresenta una brusca dipartita rispetto a quella che spesso viene ritenuta una fondamentale caratteristica dell’individualismo liberale: l’esclusiva preoccupazione per i diritti individuali e il conseguente insuccesso nel valutare l’importanza della comunità o dell’appartenenza al gruppo per il benessere e per la stessa identità dell’individuo.

Dopo quest’analisi – che potrebbe essere molto più approfondita – possiamo rilevare che nessun veneto auspica l’uso delle armi cui gli algerini furono costretti. Semmai c’è chi si sorprende che l’esistente sentimento indipendentista veneto – una sorta di fiume carsico – sia stato sin qui lasciato alla rappresentanza di persone inadeguate e malaccorte. Eufemismi per intellettuali e politici felloni interessati solo al potere a discapito dei veneti. Scombinati che hanno considerato solo la via istituzionale che, per esempio, in Catalogna non è stata assolutamente premiante.

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