I governi degli stati europei che meglio si occupano della salute delle persone (salute che ovviamente non dipende che in minima misura da quegli stessi stati) come la Svezia, la Germania, l’Olanda, la Gran Bretagna o la Svizzera non hanno inizialmente drammatizzato più del necessario il pericolo conseguente alla diffusione del virus Corona. Ad un certo punto però, eccezion fatta per la Svezia, tutti sembrano, nel racconto di questo dramma, aver accettato un copione che sembrava essere inizialmente adottato solo dall’Italia.
Il copione prevedeva la macabra e quotidiana conta dei morti su scala nazionale, l’esposizione a livello locale e nazionale di singoli casi, la progressiva diffusione di immagini ansiogene attraverso la tv, l’associazione contagio-morte ed altri disorientamenti dell’opinione pubblica che difficilmente possono essere attribuiti al caso o ad una esplosione involontaria e delirante del rapporto tra tv e telespettatori. Si è capito però che i canali televisivi nazionali ed i giornali possiedono ancora una importante influenza sulla società. E’ noto a molti un esperimento condotto su diversi studenti ai quali veniva chiesto di dire quale fosse la linea più lunga tra quelle presentate; le linee presentate erano tutte uguali. In ogni gruppo testato c’era un solo studente la cui opinione costituiva l’oggetto dell’esperimento; gli altri, che erano complici della sperimentazione, asserivano che una di quelle presentate era la linea più lunga, e la loro dichiarazione precedeva quella dello studente inconsapevole. Quando toccava a quest’ultimo egli ripeteva, non si può dire se convintamente o meno, la stessa dichiarazione degli altri.
Non possedendo ancora dati attendibili che possano attestare, minimizzando i probabili errori, la relazione diretta tra la diffusione del virus Corona in Europa, l’insorgere di sintomi tipici negli individui ospitanti e le persone decedute (lavoro molto complesso, che richiede l’individuazione dei meccanismi che in ogni singolo individuo conducono a qualcuno degli esiti indicati), in alcuni paesi il fenomeno è stato inizialmente gestito in modo meno traumatico e, contemporaneamente, meno grottesco; tuttavia nel corso delle settimane quasi tutti gli stati europei hanno deciso di adottare un identico format (probabilmente attenuato solo in ordine alla durata) per spiegare la diffusione del virus Corona e le complicazioni che questa comportava per la salute delle persone. L’11 marzo Ursula Von Der Leyen dichiarava infatti: “Siamo tutti italiani”; lo stesso giorno Angel Merkel dichiarava che “il virus infetterà dal 60 al 70% dei Tedeschi”. Fuor di dubbio che quest’ultima dichiarazione segna una profonda differenza, di stile, tra italiani e Tedeschi.
Fatto sta che lo stato italiano, e poi a ruota quasi tutti gli stati europei e anche molti in giro per il mondo, si sono adeguati al nuovo pericolo invisibile ed hanno attestato nei fatti il passaggio a quello stato d’eccezione indicato dal filosofo Giorgio Agamben, interprete del pensiero foucaultiano, come il vero o prevalente obiettivo della dichiarazione di pandemia. Questa, più o meno, la cronaca fino ad oggi.
Sotto a tutte queste oscure ed in parte insondabili vicende, le restrizioni che lo stato italiano ha posto alla libertà dei cittadini hanno generato, ovviamente, delle reazioni. Si può dire che nel corso delle settimane le persone abbiano iniziato, per necessità, a liberare, nella misura del possibile, quegli spazi indispensabili ad una vita accettabilmente civile. Gran parte di queste nuove abitudini testimoniano una sorta di schizofrenia, di dissociazione tra la rappresentazione della situazione imposta e la necessità quotidiana di normalità. Accanto agli appelli a restare in casa, è proprio in quelle stesse case che la vita è continuata a scorrere nello stesso modo in cui scorreva prima dell’emergenza virus Corona: le persone che continuavano a lavorare negli ospedali e nel rapporto con il pubblico, una volta rincasate dismettevano le mascherine e recuperavano, magari con maggior calore, la dimensione privata e intima propria di ogni famiglia; e ciò, quindi, a dispetto di ogni pericolo di contagio. Nei luoghi di lavoro l’indisciplina verso le disposizioni del governo ha, dopo pochi giorni, prevalso nettamente sull’osservanza rigorosa delle regole che dovrebbero prevenire la diffusione del contagio; regole che peraltro venivano immediatamente recuperate (mascherine, guanti, distanza di sicurezza, frequentissimi lavaggi delle mani) non appena si rendeva necessario, ovvero nel caso di irruzioni impreviste da parte di persone estranee e, in ogni caso, non facenti parte dell’abituale e fiduciario insieme di colleghi e/o clienti meglio conosciuti e quotidianamente frequentati. Adattamenti di questo tipo possono essere rilevati negli ospedali, nelle case di cura, nei negozi di alimentari, nelle officine, nei retro-bottega, nelle cantine, nei sentieri di campagna, nei luoghi dove i giovani, clandestinamente, si ritrovano ed in ogni spazio al riparo da sguardi indiscreti. Non si può però non rilevare però che, nello stesso tempo, l’intervento liberticida dello stato italiano sulla vita dei cittadini ha, curiosamente, agglomerato sul piano dell’opinione e perfino della volgarità delle espressioni, cittadini che erano precedentemente separati da opinioni politiche opposte, consentendo loro di manifestare quello spirito autoritario, caporalesco, delatorio e servile tipico di molti italiani.
I social network hanno coadiuvato, sembra, questo doppio registro, stimolando gli appelli a stare in casa, le denunce di comportamenti inadeguati allo stato d’eccezione, le esibizioni sentimentali, i consigli, le discussioni. E’ stato detto dell’importanza e della specificità di questa pandemia, caratterizzata, più che da ogni altra cosa, dal fatto di essersi manifestata in presenza di rete. Grazie al web, ai social network le informazioni sono circolate senza sosta, comprese le polemiche tra scienziati, inevitabili per statuto; ogni comportamento di difesa contro il virus Corona, ad un certo punto, poteva essere indicato come inadeguato, insufficiente o eccessivo.
Gli indipendentisti hanno immaginato, dopo qualche iniziale disorientamento, nuove opportunità e nuove speranze per la realizzazione dei loro desideri e dei loro obiettivi. Si è cioè presa in seria considerazione l’ipotesi che un tale sconquasso economico potesse aprire spazi inediti per la lotta politica che ha come scopo l’indipendenza del Veneto e, più in generale, delle regioni padane (e per logica conseguenza o per emulazione di tutti i popoli italiani ed europei).
Il radicale mutamento del quadro economico europeo, segnato dall’evidenza dell’insostenibilità di un debito pubblico italiano che invece di ridursi, a causa della pandemia, potrebbe ingigantirsi fino a diventare pericoloso per la tenuta dell’Europa intera, ha fatto pensare che finalmente, in un modo o nell’altro, le aree produttive e fiscalmente sfruttate della penisola si sarebbero improvvisamente trovate difronte alla scelta se restare in quella parte d’Europa che funziona abbastanza bene o, viceversa, affondare insieme al resto dell’Italia. Contemporaneamente si è pensato che il fallimento dell’Unione Europea dominata sostanzialmente da due stati, la Germania e la Francia, avrebbe generato la necessità di architetture istituzionali orientate dal modello federale. Questo quadro, in effetti, sembrerebbe molto favorevole alle istanze indipendentiste.
Chiediamoci ancora, però, se i numeri della pandemia da Corona virus possano giustificare l’allarme generale che tutti gli stati europei, più o meno, hanno contribuito, in consonanza con la comunicazione televisiva, a produrre. E’ la domanda che non solo il filosofo prima ricordato, ma molti altri intellettuali e più in genere molte persone si sono posti. Se la risposta è no, cioè se si ritiene che, in confronto a tanti altri problemi relativi alla salute delle persone, quella da Corona virus era una epidemia tutto sommato gestibile con maggior razionalità e minor preoccupazione; se la risposta è che in Italia l’epidemia ha prodotto ciò che ha prodotto a causa di un sistema sanitario inadeguato, inefficiente, organizzato in modo tale da garantire, invece che la salute delle persone, importanti flussi di denaro per via statale, quindi clientele; se queste sono le risposte, allora non si può non osservare che la pandemia, laddove abbia provocato in Italia (e un po’, in realtà, in tutto il mondo) un’estensione della domanda di stato tra i cittadini, si configura come fenomeno sociale controproducente rispetto a qualsiasi incremento di consapevolezza e, perciò, di diffusa comprensione dei problemi e della misura razionale con la quale i problemi, per esempio il problema della propria salute in relazione a quella degli altri, devono essere affrontati. La domanda di più stato non può che complicare ulteriormente le istanze indipendentiste.
Potrebbe essere un errore di sottovalutazione della domanda di stato considerare vantaggioso il fatto che nei paesi come l’Italia, dove l’inefficienza dell’apparato pubblico raggiunge livelli ormai inestimabili, tale domanda venga in parte declinata in senso autonomista. Forse i Lombardi e i Veneti e perfino i Piemontesi, terminata l’epidemia, sentiranno un po’ più vicina la regione rispetto a quanto non sia lo stato, e ad essa concederanno maggior credito. Ma bisogna chiedersi quanto questa vaga, quand’anche diffusa, fiducia creditizia può essere utile per realizzare un progetto indipendentista credibile? Se l’ipotesi proposta è corretta non ci si trova, invece, a dover fare i conti con una capacità di persuasione che si pensava impossibile fino a ieri? E gli strumenti che perfezionano questa capacità, non sono in fondo nelle mani dei governi statali, oggi ancor più di prima? Avremmo mai potuto pensare che lo stato italiano sarebbe riuscito a disciplinare la vita di milioni di cittadini riducendone in modo così sconcertante la capacità di discernimento, mettendo sulla scena un pericolo pubblico invisibile che in altri stati, pur social-democratici, è stato affrontato con una ben differente razionalità? Siamo sicuri che, terminata la pandemia, si estenda quello spazio di manovra politica all’interno del quale dovrebbero inserirsi le forze politiche federaliste? Non è invece altrettanto probabile che la propaganda statal-italiana, già attiva da settimane, possa offrire al telespettatore lo spettacolo di una temporanea liberazione da un pericolo il cui contenimento è stato resto possibile dal concentramento di poteri tipico dello stato italiano e della solidarietà nazionale che qualsiasi ipotesi di decentramento rischierebbe di vanificare?
L’indipendentismo rischia quindi di ritrovarsi, terminata la pandemia, al punto di prima, se non in una situazione ancor più difficile. Soprattutto se, invece di innalzare quel palcoscenico dove poter restituire a chi ha ancora orecchie e cervello per ascoltare un resoconto preciso del come e perché si è sviluppata questa isteria collettiva tipicamente italiana (ma che, ripetiamolo, sembra essere particolarmente gradita in molti altri stati), si preoccuperà di contribuire a recuperare da subito la “vita democratica” del paese, ovvero di infilarsi al più presto nelle dinamiche delle istituzioni che determinano il quadro all’interno del quale lo stato incrementa la sua potenza e mortifica la libertà e la ricchezza di popoli e individui, fino al punto da utilizzare a suo vantaggio ogni genere di dati e tradurli in informazione con lo scopo di intimorire, controllare e sfruttare la vita degli individui. Il rischio che nuovamente si corre è quello di di ritrovarci, fra un anno, a discutere di strategie elettorali, partiti, punti percentuali ed alleanze, così come si è fatto, sbagliando, fino ad oggi.
Mi si permetta un appunto. All’indomani dell’esito del referendum autonomista, indicai nell’indipendentismo l’unico soggetto che poteva capitalizzare quel risultato in senso federalista, ovvero con lo scopo di mobilitare il popolo per realizzare il principio indipendentista sul quale si deve fondare ogni ipotesi di alleanza ed aggregazione volontaria di poteri; ma in quell’occasione le scelte da compiere avrebbero dovuto chiarire, già dal giorno dopo, il carattere dirompente e straordinario che l’indipendentismo veneto, in quanto indipendentismo, contiene. Il chiarimento implicava da parte di tutti i soggetti che amano definirsi indipendentisti decisioni inequivocabili circa il rapporto con lo stato italiano. Quelle decisioni non sono state prese da tutti. E così una parte importante dell’indipendentismo veneto si è rivelata, ancora una volta, non all’altezza della situazione; situazione che, lo si ripeta per l’ennesima volta, non può che risolversi in una straordinaria lotta tra stato italiano ed indipendentismo veneto. Il quale indipendentismo veneto, bisogna ricordarlo, sembra non conoscere la risorsa a cui deve attingere, cioè il desiderio di indipendenza dei Veneti; e sembra non riuscire a cogliere le occasioni per portare sulla scena pubblica la straordinaria lotta per l’indipendenza che solo la piena espressione di questo desiderio può determinare (a parte le rare e lodevoli eccezioni che, pur non mancando, risultano ingolfate nel loro sviluppo, costrette e confinate entro il limite dei massimi locali; incapaci quindi di ulteriore evoluzione, soprattutto in ordine agli strumenti usati).
La pandemia ha avuto il merito di estendere capillarmente una consapevolezza che, forse, prima non era così diffusa: finalmente la scienza non può più essere assunta come giustificazione dogmatica di qualsivoglia proposito di legiferazione e decretazione statale. Le scienze della natura immaginate come somma di teorie inconfutabili ed eterne, come raggiungimento definitivo delle conoscenze relative al funzionamento degli organismi e, più in generale, della realtà fisica, non costituiscono più quel surrogato della religione a cui erano state ridotte. Si tratta, probabilmente, della fine di un mondo, una ridefinizione di riferimenti anche politici che ci può far ricordare il compimento ed il superamento del mondo europeo sconquassato dalle guerre religiose e riformato nel trattato di Westfalia.
Cambiamenti così radicali comportano lotte altrettanto radicali che difficilmente, soprattutto in Italia, possono risolversi, come auspica qualunque persona il cui pacifismo può risuonare sospetto, in banali competizioni elettorali fossero anche indirizzate all’elezione di una assemblea costituente dai contorni che, però, altro non potrebbero che ricalcare quelli più vantaggiosi per i partiti politici che attualmente restano i protagonisti della vita politica italiana. Ogni via che escluda a priori la tensione sociale determinata dal disvelamento della truffa in cui consiste il rapporto tra gli attuali stati europei ed i popoli che, in misura sempre maggiore, ne patiscono il dominio, non può che concedere ai medesimi stati una posizione di vantaggio; posizione dalla quale gli attuali stati europei non faticheranno a riproporre, con cadenza calcolata ed a loro ormai indispensabile, crisi virali, sempre nuovi nemici invisibili capaci di ingessare, arrestare e deteriorare la libertà e la prosperità dei popoli.
Le esperienze di adattamento allo stato d’eccezione che in queste settimane abbiamo vissuto possono essere invece la base comune di consapevolezza e di reciproca fiducia dalla quale originare una lotta senza limiti di mezzi e di tempo, contenendo quelle stesse esperienze e quelle stesse relazioni definizioni chiare e concretizzantesi del comune nemico che ha offeso e progressivamente tenterà di offendere in misura sempre crescente la nostra naturale libertà.
Chiedo scusa ma è’ evidente che l’autore è dei tanti, direi dei più, che invece di seguire le notizie dell’andamento del contagio sulle puntuali trasmissioni fornite ogni giorno dalle 12 sulla rete 13 che è veneta, segue le notizie pandemiche sui canali nazionali, dove si dice di tutto e di più generando confronti incongrui rispetto alle diverse realtà nazionali e relativi comportamenti della gente… purtroppo, o per fortuna, l’Italia è diversissima territorialmente e perciò le omogeneizzazioni sono comode e semplicistiche e nel momento presente quanto mai dannose…vanno bene solo per le manifestazioni religiose specie se sublimate dalla presenza del Papa.
Lucidissima analisi come sempre. Preferisco per natura vedere il bicchiere mezzo pieno piuttosto che mezzo vuoto. Credo che dovrebbe e potrebbe nascere un movimento giovanile forte — le rivoluzioni da sempre le fanno i giovani, preoccupati di vivere la loro vita in un mondo migliore — soprattutto in Veneto, con un leader che faccia sognare, sappia parlare, e imponga stili comunicativi nuovi. Ci vuole un catalizzatore. Se prima del COVID-19 sarebbe stato un catalizzatore della rabbia, ora lo sarà della vera e propria disperazione. Le generazioni dei giovani, almeno due, NON hanno alcun futuro, prima lo avevano INCERTO. Affidiamoci a loro e se poi hanno deciso di estinguersi, non prendiamocela. Come gli individui hanno pieno diritto al suicidio, così lo hanno le civiltà. Con un caveat, nel secondo caso: se tutti sono d’accordo. Se a me a venti anni avessero cancellato il futuro in questo modo, mi sarei ribellato in modo radicale. Ma ognuno è diverso…
Grazie. Allora largo ai giovani.
non bastano, caro professore, i catalizzatori perché intorno al niente non s’addensa che il nulla.
Non parlo della nobile storia nei cuori di molti che testimonia di un potenziale istinto indipendentista.
Non parlo della rabbia e disperazione di chi ha finanziato per multipli, nelle ultime decine d’anni, la sanità che ha negato respiratori ed assistenza a chi pensava di meritarne le attenzioni. Dopo aver pagato dieci volte con gli avanzi fiscali giù per lo scarico italico sentirsi dire di essere stato scartato dalle cure per salvare chi aveva più speranza di vita.
Parlo dei benpensanti che si gongolano per lo scampato pericolo (per ora) senza essere riusciti a comprendere la legge matematica sottostante: stato = morte. Sempre e da molti punti di vista.
Ogni stato, anche quello al quale si intende pervenire con l’indipendenza. Quando la libertà si ritiene debba venire da scelte politiche bisogna toccarsi i medesimi e sperare di non morirne.
La domanda di Colla riceve la risposta di un politico che non ha (a mio avviso) nessuna idea delle implicazioni della sua risposta (apparentemente logica), o meglio, che non percepisce nemmeno quali siano i rischi connessi ad una simile risposta. Lungi da me giudicare la persona, che probabilmente ha un suo legittimo disegno in testa, ma prima di avere qualsiasi idea circa un nuovo ente serve raggiungere il punto di sapere, con ampio accordo, cosa scartare o cosa non funziona della relitta organizzazione di provenienza. Ciò serve per fornire una non equivoca base di partenza per una elevazione dalla semplice retorica storico-emotiva fino a rendere chiaro e lampante che ogni soluzione, anche temporanea, non sarà fondata sulla coazione a ripetere di ciò che si contesta alla criminale organizzazione di provenienza. Come ancora oggi si può pensare di blindare un territorio in nome della gente e poi, solo successivamente, decidere come articolare le istituzioni e farlo, per necessaria urgenza, scimiottando cose di buonsenso di relitta ingegneria politica, in attesa che si compia un destino migliore. Oltre due secoli di crimini contro i governati non sono sufficienti per decidere di cambiare stampo?
Qui non ci sono illimitate crape però è ovvio, s’intende, che si cominci con quelle sulle quali si potrà contare.
No, no caro eridanio. Capisco la preoccupazione e le implicazioni di una lotta sena limiti di mezzi. Ma trattandosi di una lotta tra stato italiano e popolo Veneto, direi che invece delle implicazioni è più utile considerare le probabili conseguenze, che secondo me non potranno mai essere, indipendentemente dai mezzi usati, tragiche quanto il restare nello stato italiano. La pregherei gentilmente, però, di non attribuirmi scopi d altro genere che non siano quelli evidenti: dare il mio contribuito, piccolo, forse inutile, alla comprensione di ciò che c’è da fare per raggiungere l indipendenza del Veneto (intenzione che, le assicuro, contiene la consapevolezza di poter sbagliare). In ogni caso la ringrazio per l interessante commento.
Gentile Alessandro, non attribuisco. Osservo indegnamente. Grazie a lei.
Una lotta “senza limiti di mezzi”? Cioè i mezzi non sarebbero oggettivamente limitati, specialmente quelli finanziari?
Ovvio. Si intende quelli di cui si può disporre.