Di tanto in tanto Paolo Savona esprime la sua opinione sul debito pubblico italiano. In un breve articolo ospitato contemporaneamente sul Sole 24 Ore e MF, Savona esordisce così:
- “La gran parte degli economisti italiani, dopo aver assecondato la crescita del debito pubblico italiano a cominciare dalla crisi petrolifera di inizio anni 1970, concordano ora che aumentare l’indebitamento in una situazione come quella che viviamo è pericoloso, ma anche necessario per evitare il peggio e non solo per il debito già in circolazione.”
Quando afferma che la gran parte degli economisti italiani ha assecondato la crescita del debito pubblico, credo che Savona abbia ragione. Quello prevalente in Italia è infatti una forma di keynesismo perfino più discutibile dell’originale. Prosegue Savona:
- “Ciò che non convince di questa tardiva conversione è la motivazione: dicono infatti che il debito va rimborsato. La storia economica insegna che questa preoccupazione non ha fondamento perché, come ci hanno insegnato illustri maestri, i debiti pubblici non vengono mai rimborsati, ma rinnovati sopportando gli oneri relativi. Se fossero considerati eccessivi, si dovrebbe dichiarare il default, ossia di non volerlo rimborsare. Due altri modi per alleggerire il peso del debito è deprezzarlo con l’inflazione o rinegoziarlo con i creditori per concordare un importo inferiore.”
Effettivamente i debiti pubblici generalmente non sono storicamente stati rimborsati per intero, bensì rinnovati (se non ripudiati). Ai livelli attuali credo anche che un loro rimborso sarebbe teoricamente possibile solo nominalmente in un contesto di monete fortemente inflazionate, comportando, quindi una pesante svalutazione in termini reali. Sarebbe un default sotto altro nome. Ed ecco quello che ritengo il passaggio chiave:
- “L’idea del rimborso tentò di affermarsi a Maastricht, ma Guido Carli, ben conscio degli effetti, se non proprio dell’impossibilità di farlo, concordò di fare convergere il debito pubblico verso il 60% del PIL; Carlo Azeglio Ciampi cadenzò con uno specifico accordo i tempi della convergenza. Anche questa riduzione relativa non si realizzò, nonostante alcuni piccoli progressi ottenuti prima della crisi del 2008, pagati con una perdita di efficacia della politica fiscale e una riduzione strutturale del nostro saggio di crescita reale.”
In sostanza, secondo Savona le politiche relativamente meno spenderecce (ma pur sempre in deficit) poste in essere a partire dalla metà degli anni Novanta per ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil tolsero benzina al motore della crescita italiana.
Se questo ragionamento avesse un fondamento logico, si dovrebbe riscontrare nei dati che i Paesi che hanno sempre avuto un basso indebitamento pubblico se la sono passata storicamente peggio dell’Italia. I dati dimostrano che non è così, tanto in Europa, quanto nel resto del mondo. Purtroppo, però, il keynesismo, nella variante subalpina, continua a ritenere una verità auto evidente che nella spesa in deficit vi sia la via allo sviluppo economico. Ovviamente purché i soldi presi a prestito siano ben spesi (come ha di recente dichiarato colui che è considerato dal mainstream il salvatore dell’euro, quello che serve è “debito buono”).
Questo pare essere anche il punto di vista di Savona.
- “Nella disputa in corso sull’uso dell’indebitamento pubblico va tenuto presente che, se la sua destinazione sono gli investimenti, si aumenta il capitale che si lascia ai figli e ai nipoti, consegnando loro un bilancio dove attivo e passivo si equivalgono e, se la crescita reale aumenta, anche qualcosa in più. Se, invece, è destinato all’assistenza, per giunta con un’insufficiente spinta alla crescita del PIL, come sembra stia accadendo, le spese devono essere finanziate con tasse, contributi europei a fondo perduto o emissione di titoli irredimibili. Se il dibattito politico in corso non esamina in questo modo il quadro intricato da affrontare e continuerà a pendere da una parte o dall’altra, il Paese non potrà tornare sulla strada dello sviluppo.”
Posto che, quando c’è di mezzo la politica, la definizione di investimento rischia di essere dilatata fino a ricomprendere vera e propria spesa corrente, a me pare un po’ semplicistico concludere che se il debito è utilizzato per finanziare investimenti si possano dormire sonni tranquilli. E’ infatti necessario che il rendimento degli investimenti sia superiore al costo del debito, altrimenti quegli stessi investimenti creano le basi per aggravare il debito e il carico fiscale.
Per di più, nel mondo reale, ogni bene che incrementa l’attivo di stato patrimoniale necessita di manutenzione e successivi investimenti, il che significa che il problema non è risolto facendo “debito buono” all’inizio.
Last, but not least, si tratta pur sempre di porre l’onere del debito (per quanto “buono”) a carico di soggetti che non hanno avuto alcuna voce in capitolo nel determinare le scelte di investimento, a maggior ragione se appartenenti alla categoria “figli e nipoti”. Per i quali è prevedibile che l’effetto moltiplicatore non sarà favorevole, al pari di quello che può dirsi per i loro genitori, soprattutto quando appartenenti al gruppo dei pagatori netti di tasse.
Abbiamo visto nei precedenti investimenti pubblici quanto attivo sia equivalso al passivo. Tra l’altro, per Savona è perfettamente morale e non truffaldina l’emissione di titoli irredimibili. Mi chiedo perché ci siano ancora tanti sprovveduti che continuano ad acquistare tali titoli.
Concordo