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L’umanesimo, la civiltà comunale, l’odierna democrazia diretta

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di ENZO TRENTIN

L’umanesimo nacque nel XIII-XV secolo per portare la ragione ad elevarsi al di sopra dell’ipse dixit che rispecchiava l’immobilismo culturale e sociale di un medioevo in larga parte dominato dalla chiesa, che voleva l’uomo sottomesso e povero, perché sulla povertà poteva sempre contare per vendergli la favola di una vita ultraterrena migliore di quella da miseria reale che gli imponeva. Gli autori classici greci e romani venivano studiati dagli umanisti per riscoprire il reale significato di quanto avevano voluto comunicare, mettendo da parte quel contenuto allegorico che la cultura clericale aveva appiccicato loro per mille anni. Da ciò nacque la filologia e la riscoperta del senso più autentico del testo e della verità che conteneva, spirito che poi sarà ripreso dal Rinascimento e più tardi spronerà l’Illuminismo.

I professori Quentin Skinner di Cambridge, John Hicks di Oxford, Robert Putnam di Harvard, Maurizio Viroli di Princeton, senza alcun tentennamento fanno risalire proprio a quel periodo, ossia all’Umanesimo fiorito nelle università delle libere città-stato del nord Italia, l’inizio del pensiero politico occidentale (che è tutto concentrato sulla democrazia), ossia, sic et simpliciter, a quel periodo fanno risalire l’Occidente in cui noi viviamo.

Una caratteristica fondamentale dell’assetto istituzionale delle città-stato del basso Medioevo italiano, caratteristica che, vista l’epoca, potremmo già definire “democratica”, fu:

  • La larga partecipazione alle assemblee legislative: il Consiglio generale contava normalmente intorno ai 300 individui, con punte che, a seconda dell’importanza del tema trattato, potevano arrivare fino a 800. Per esempio, la Basilica Palladiana a Vicenza è un edificio pubblico che si affaccia su Piazza dei Signori. Il suo nome è indissolubilmente legato all’architetto rinascimentale Andrea Palladio. Il suo piano superiore è interamente occupato dal salone del Consiglio dei Quattrocento.
  • La breve scadenza della carica a consigliere: un anno con la esclusione della immediata rielezione se non dopo anni.
  • L’espulsione da ogni altra carica pubblica detenuta da familiari del neo-eletto consigliere.

Ci sarebbero altre cose da dire, come per esempio sull’organo di governo a Siena. I consiglieri erano in carica solo per 60 giorni, ed erano chiusi a chiave nel Palazzo Pubblico con la possibilità, per l’intero periodo, di avere solo contatti pubblici e la proibizione assoluta di contatti con privati, moglie compresa.

Verso il 1150 il regime dei consoli si era imposto in tutte le città dell’Italia centrosettentrionale, con le rilevanti eccezioni di Roma e Venezia. Nell’Urbe i cittadini acquisirono molto lentamente una significativa autonomia dal potere papale e solo nel 1143, in seguito a un’azione di forza da parte dell’aristocrazia cittadina, fu istituito un senato con funzioni simili a quelle dei collegi consolari. A questa data anche nella città lagunare esistevano istituzioni comunali, ma il vertice del governo era costituito da un magistrato unico, il doge (dux), in un primo momento eletto da un’assemblea di cittadini (concio) e in seguito scelto dal consiglio dei saggi.

Oppure si potrebbe parlare delle decine di arti, gilde, corporazioni, contrade, sestieri, compagnie laicali, religiose o militari etc., a cui ogni civis era associato, e attraverso le quali partecipava indirettamente anche alla gestione della cosa pubblica. Per cui poteva essere difficile trovare un cittadino che nell’arco della sua vita non avesse avuto almeno un incarico pubblico e/o politico. Insomma democrazia = potere al popolo (demos kratos). La democrazia rappresentativa è una sottospecie degenerata di quella democrazia che per definizione dovrebbe essere definita diretta.

Non manca ovviamente chi ancora oggi critichi e perfino ridicolizzi la complessità e la macchinosità di una simile architettura istituzionale. Ma c’è la “prova del nove” a smentirli: da quel “regime complicato” discende direttamente il periodo storicamente più luminoso di ogni altro che la Penisola abbia mai vissuto (l’Umanesimo/Rinascimento) e che sta alla base dello stesso moderno pensiero politico occidentale.

Quel periodo, ritenuto politicamente così complicato, è stato invece così felicemente prolifico di eccellenza che ancora oggi in molte città d’arte una buona parte della popolazione vive direttamente o indirettamente (e abbastanza bene!) di ciò che fu fatto allora. Erano esagerati? No! Sapevano che quanti più fossero quelli che decidevano, ossia quanto più vasta fosse la rappresentanza popolare, tanto più equa e giusta sarebbe stata la legiferazione. È una cosa che oggi noi dovremmo sapere bene: quanti più sono quelli che decidono tanto più ampi sono i livelli di democrazia applicati e tanto più evidenti sono i benefici che ne derivano. Benefici che non sono solo di carattere etico, ossia libertà, indipendenza, giustizia, uguaglianza, cooperazione etc., ma anche e soprattutto di carattere materiale: prosperità diffusa, cultura, arti e scienze etc. In una parola: civiltà.

All’epoca si sapeva quali rischi comportassero gli abboccamenti tra politici e privati cittadini. Oggi non più, o peggio quegli abboccamenti sono valutati positivamente. I politici ne menano un gran vanto, e spesso questo “paga”. Si veda il “governatore” Luca Zaia che deambula indefessamente su e giù per la Regione Veneto a farsi riprendere in pubblico invece di lavorare a Venezia, e viene premiato dal 76,8% degli elettori.

Da qualche parte si può anche leggere che allora chi avesse votato a favore della guerra doveva obbligatoriamente armarsi e partire con l’esercito. Si capisce al volo che se si adottasse oggi una simile legge, la stragrande maggioranza delle guerre oggi sarebbero finite prima di cominciare. E comunque vale la pena di ricordare qui che le ultime due guerre a cui (violando l’art. della Costituzione) l’Italia ha partecipato sono quelle contro la Serbia nel 1999 e contro l’Iraq nel 2003. Mezzo mondo contro due piccole nazioni, con lutti e danni incalcolabili a carico della popolazione civile dei due paesi. Non risulta che i due Capi del Governo di allora, due autentici “democratici”: Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, abbiano consultato il Parlamento e meno che mai il popolo. Ma, e questo è certo, “consultarono” e si affiancarono, vergognosamente agli USA.

È poi necessario prendere atto che i partiti non sono più spazi dove si sviluppano le idee politiche e si procede alla loro materializzazione. Basta osservare come in tutti i simboli elettorali campeggi oramai il nome dei rispettivi leader o pseudo tali. Le parti”, invece, devono essere luoghi in cui il dibattito di idee nasce dalle proposte e dallo scambio di opinioni, altrimenti siamo di fronte a organizzazioni gerarchiche che rispondono ad un unico comando.

La democrazia è un diritto umano.

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nel 2007, ha indicato il 15 settembre quale giornata della democrazia. Questo alto consesso ricorda così quanto è scritto nell’art. 21 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948:

Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia attraverso rappresentanti liberamente scelti.”

e aggiunge al paragrafo 3:

“La volontà popolare è il fondamento dell’autorità del governo; tale volontà deve essere espressa attraverso periodiche e veritiere elezioni, effettuate a suffragio universale ed eguale, ed a voto segreto, o secondo una procedura equivalente di libera votazione.”

L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in merito a questa giornata celebrativa sottolinea che “la democrazia è un processo con un obiettivo chiaro: la realizzazione di questo diritto.” E pone in rilievo che l’ideale della democrazia può essere realizzato e divenire un beneficio per tutti soltanto se viene perseguito da tutti: dalla comunità internazionale, dalle istituzioni nazionali, dalla società civile e da ogni singola persona.

Democrazia quindi già durante il suo formarsi non significa delega, ma partecipazione di tutti. É  richiesto l’impegno di tutti!

A Bolzano da circa un quarto di secolo opera Initiative für mehr Demokratie, (omologa della sua progenitrice germanica) che insieme a molte organizzazioni della società civile e soprattutto decine di migliaia di cittadini della provincia, dimostrano che i partiti politici non sono indispensabili. Ricordiamo qui soltanto i 114.884 cittadini che nella votazione referendaria del 2009 hanno votato a favore di un loro proposta per una democrazia diretta (per la Provincia autonoma) completa e ben praticabile.

Del resto l’Articolo 49 della Costituzione italiana recita: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». Venti striminzite parole solo per dire che i cittadini “hanno diritto”, ovvero non è un obbligo. E i partiti “concorrono” a determinare la politica. E chi sono allora gli altri “concorrenti” se non i cittadini in prima persona attraverso gli strumenti della democrazia diretta: istanze, petizioni, iniziativa popolare, referendum (non i ridicoli «consultivi»), recall etc.?

Contro l’opera di Initiative für mehr Demokratie, ovvero l’iniziativa popolare, si schiera la forte riluttanza della maggioranza governativa (principalmente la Südtiroler Volkspartei – SVP) a partecipare a questo processo e allo sviluppo della democrazia in quel territorio. Chi governa non soltanto non si impegna di propria iniziativa per un continuo miglioramento della democrazia, ma nemmeno dà seguito alla richiesta da parte della Commissione per i diritti umani delle Nazioni Unite di eliminare limitazioni e ostacoli eccessivi all’esercizio dei diritti politici di partecipazione. Sia lo Stato italiano sia la Provincia autonoma di Bolzano hanno disatteso il termine posto dalla Commissione.

Per questo è necessario che i cittadini facciano un ulteriore passo. Un gesto di natura del tutto nuova, delegando il meno possibile ai partiti politici. E tramite il diritto conquistato di poter decidere essi stessi, così come sta scritto nella Carta dei Diritti Umani, i bolzanini il 14 settembre, hanno presentato alla Presidenza del Consiglio Provinciale due richieste referendarie. Si tratta di due disegni di legge sui quali dovranno decidere i cittadini della provincia il prossimo anno in una votazione referendaria. Beninteso se 15.000 donne e uomini altoatesini lo richiederanno con la propria firma.

Va rimarcato che la Commissione per i Diritti Umani dell’ONU ha chiesto all’Italia di rendere più agevole l’utilizzo del diritto politico di partecipazione:

  • Tramite una cerchia più ampia di persone che possono esercitare il diritto di autenticazione delle firme, cerchia che in Alto Adige rischia di essere ristretta ulteriormente.
  • Tramite l’introduzione della raccolta firme on-line (l’UE lo consente già – https://europa.eu/citizens-initiative/online-collection-system_it ), che in tempi di Covid-19 dovrebbe essere resa possibile senza indugio, e che invece è stata esplicitamente respinta dalla maggioranza del Consiglio regionale.
  • Con un’informazione istituzionale sulle richieste referendarie presentate, cosa ovvia anch’essa, e l’abbassamento del numero delle firme da raccogliere per i diversi strumenti di democrazia diretta.

Similmente a quanto è avvenuto per millenni, i sud tirolesi intendono promuovere anche un Consiglio formato da cittadini estratti a sorte, e formato in modo che rispecchi la composizione della società. Questi Consigli sono già attivi in molti paesi del mondo (vedasi: town meeting, Landsgemeinden, e altre iniziative affini) per discutere, in modo indipendente dai governi, delle questioni più difficili.

L’ostilità nei confronti dei partiti.

Torniamo alla Venezia della fine del Duecento. Si assisté a un processo di «irrigidimento sociale» che finì per restringere i criteri della partecipazione al governo cittadino. La celebre «serrata» del 1297, infatti, riservava l’accesso al Maggior consiglio ai membri delle famiglie che avevano fatto parte di tale assemblea nei quattro anni precedenti alla riforma. Sebbene gli storici siano oggi inclini a sfumare l’idea che questa legge abbia determinato una vera e propria «chiusura», sottolineando come in quegli stessi anni il numero globale dei consiglieri fosse decisamente aumentato, resta il fatto che il provvedimento tendeva a definire in modo più rigido un nuovo gruppo dirigente in cui il ceto dei cittadini che si erano arricchiti con il capitale mobile era in via di progressiva assimilazione con la più antica aristocrazia.

Il giurista Bartolo da Sassoferrato [VEDI QUI] lodava la buona riuscita del regime aristocratico veneziano, considerava questa ampiezza essenziale. Quello di Venezia, diceva, è un regime che va sotto il titolo di Governo dei Pochi; ma, proseguiva, «sebbene siano pochi a paragone dell’intera popolazione cittadina, essi sono molti a paragone di coloro che dominano in altre città, e poiché sono molti il popolo accetta di buon animo di esserne governato. Anche, essendo molti, è più difficile che siano divisi fra loro; e inoltre un buon numero di essi sono uomini di modesta ricchezza, che in una città sono sempre un fattore di stabilità».

Tuttavia una congiura intesa a uccidere il doge e a impadronirsi del potere fu promossa nel 1310 da Marco Querini, che indusse il genero, Baiamonte Tiepolo, a capeggiare la rivolta. Soppresso il pericolo costituito da Baiamonte Tiepolo e dai suoi seguaci, ogni avvio di partiti organizzati, anche se promossi da coloro che erano al potere, sarebbe stato giudicato una corruzione dello spirito pubblico. Tant’è che allo scopo di reprimere nuove congiure fu istituita in quello stesso anno una magistratura speciale di dieci membri, la quale si rivelò cosi utile che il Consiglio dei Dieci diventò un elemento permanente e preminente del sistema veneziano di consigli interdipendenti.

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