di MORANDINI ALESSANDRO
E’ passato più di un anno da quando siamo rimasti, tutti, invischiati in una vicenda che indichiamo con un vocabolo apparentemente inequivocabile: Pandemia. Pandemia scritto, sui giornali e un poco ovunque, con la lettera maiuscola: perché? Sembra che il mondo giornalistico abbia adottato questo fenomeno socio-sanitario attribuendogli una dignità speciale, rivelatrice, mitologica; perciò a quel vocabolo che meriterebbe un trattamento grafico non diverso da parole quali tumore, cardiopatia, suicidio, incidente stradale, demenza senile etc. concediamo una immeritata maiuscola. C’è una regola linguistica in virtù della quale può capitare che il successo di una merce offerta da una casa produttrice trasformi, nel vocabolario corrente, lo specifico modello in genere di prodotto: il nome proprio della medesima merce si innalza fino ad indicare il tipo, grazie alla diffusione ed alla eccezionale funzionalità della merce e del suo comodo ed appropriato significante, ovvero all’importante ruolo che entrambi (merce e significante) si sono ritagliati nella quotidianità di milioni di individui.
Si tratta di un eccezionale scivolamento metonimico, che nel nostro caso, nel caso della Pandemia con la maiuscola, ha seguito un movimento contrario. Ormai si può dire che se molti abitanti dell’Occidente dovessero pigliare la diffusione del microbo con cui siamo in confidenza da tempo e confrontarla con altri cataclismi sociali ed economici provocati da altri microbi, altre malattie, altri sistemi sanitari apparsi nella storia, ed ai quali si ispirano i nostri produttori di tragedie, questi nostri abitanti tenderebbero a conservare gelosamente il termine Pandemia per riferirsi a quanto solo oggi hanno vissuto, concedendo alle pesti, alle dissenterie, alle polmoniti ed alle febbri spagnole ed asiatiche del passato e del presente non più che il titolo minore di epidemia, scritto in minuscolo. La Pandemia è questa; io c’ero!
Lo spettacolo della Pandemia
Pandemia, nella società dello spettacolo o, più precisamente, nello spettacolo della società contemporanea, non indica una malattia caratterizzata da determinati sintomi, non indica un virus, non indica un certo modo di morire; Pandemia indica piuttosto un nuovo stile di vita. Il telespettatore che assiste, ogni giorno ad ogni ora, a carrellate di: iniezioni, camici, medici, camion militari, bare, mascherine, tute bianche, protezioni di vario genere, guanti in lattice, respiratori, assembramenti, poliziotti che fanno le multe è chiamato a aderire a questa nuovo way of life. Se si azzera il volume della TV non restano che cumuli di immagini, l’allegoria di una società gravemente ammalata, esausta. C’è uno scarto da prendere in seria considerazione tra la diffusione temporanea di immagini come quelle sopra elencate, ed il medesimo spettacolo protratto per più di un anno, con cadenze, disposizioni e regolarità facilmente registrabili. Se dopo un anno capitasse un improvviso black-out televisivo, sulle strade si riverserebbero migliaia di persone sgomente, avvilite, orfane di un punto di riferimento che possa ricordar loro l’unica certezza a cui possono aggrapparsi in questi tempi di crisi: Pandemia. Privati di schermo riflettente, frotte di vaganti non cercherebbero amicizia, salute, lavoro, affetti, gioia, insomma benessere; no! Cercherebbero Pandemia, l’unica compagna che capisce e mette in scena il profondo malessere con cui, nei casi tristi e dannati dal destino, si risolve una crisi.
Pandemia: scenario di guerra
Si è detto che Pandemia è un disegno politico con fini terroristici, una macchinazione mal riuscita, una conseguenza non intenzionale utile ai decisori più importanti: esibisce il potere di pochi, impaurisce i molti, affina la propaganda, inventa nemici mortali, irretisce gli sciocchi, tenta i tristi, imbaldanzisce i superbi. Si è detto che Pandemia è una guerra.
Tuttavia il terrore non è l’unica anima della guerra. La guerra funziona, come Pandemia, perché risponde positivamente ad un numero esteso di primitive necessità emotive, provocando imbarbarimenti nella vita civile: probabilmente gli effetti peggiori delle guerre non sono da imputare ai nemici, ma a ciò che si verifica nella società guerreggiante, che regredisce, abbandona l’impegno civile, gli affari, il progresso.
In guerra, come in Pandemia, la vita può apparire più semplice: delineare con chiarezza un nemico ed i suoi alleati è un vantaggio per i pigri, i lenti di intelletto e i balordi di ogni gruppo sociale. Per quanto truccata sia, la chiave con la quale aprire la porta del bene e serrare quella del male è una attrattiva molto potente. L’esclusione, la stigmatizzazione del nemico e dei suoi alleati funziona soprattutto tra chi non è abituato a riflettere: i telespettatori appunto, terreno preferito per chi nutre ambizioni dittatoriali, come disse Pier Paolo Pasolini.
Mi si permetta una nota polemica verso il mondo di cui faccio parte, quello indipendentista: si è, in questi ultimi anni, pensato che attraverso la televisione si potesse veicolare cultura, emancipazione, lotta allo stato, recupero dell’identità veneta. Quante persone ancora oggi, nel mondo che più dovrebbe distinguersi per via della sua radicale alterità, della sua totale estraneità alla religione statalista, pensano convintamente che nella presenza in TV si celi il segreto della libertà e della vittoria dei popoli sugli stati, della libertà individuale sulla oppressione della politica? Quante di queste persone, nonostante la chiara, eloquente ed esemplare esibizione che Pandemia ci ha offerto, ancora non s’accorgono della dinamica convergente tra l’intenzione di risucchiare l’energia dei popoli nel vortice perverso della lotta per il potere (non già, come dovrebbe essere, nella lotta contro il potere costituito) e la lusinga del palcoscenico? Quando si capirà che i teleschermi accesi accompagnano popoli spenti verso la fine della loro storia?
Dinamiche emotive di Pandemia
Abbiamo sbagliato a pensare che quest’anno, l’intero anno, fosse stato dominato dal terrore: l’offerta di Pandemia è ben più articolata e sofisticata. La morte televisibile e spettacolarizzata, confinata entro i rassicuranti limiti di un teleschermo, offre punture di paura prontamente lenite dalla realtà quotidiana: affacciandoci alla finestra possiamo verificare che la vita scorre nel suo solito modo, le stesse mascherine ci aiutano a mascherare il nostro ambiguo, discordante atteggiamento verso Pandemia. Lo scopo dei bollettini di guerra incute lo stesso tipo terrore sentimentalistico che ci attraversa quando ci concediamo un film horror e, usciti dal cinema, ne siamo soddisfatti. Non abbiamo paura degli altri, nessuno ha veramente, durante Pandemia, paura degli altri. Posto di fronte ad un reale pericolo di morte un individuo fugge, combatte, reagisce con veemenza, violenza, energia. L’incontro con l’altro mascherinato è segnato da un atteggiamento differente: l’occasione è buona per condividere una finzione, accettare ipocritamente una lunga serie di stupidaggini che vengono contraddette di giorno in giorno, tollerare insensati provvedimenti statali senza dover patire il fastidio di una multa; l’occasione è buona per negoziare il nostro stare in mezzo agli altri pagando pegno alla nostra intelligenza o sospingendola dove non può più apparire, soffocata da strati di conformismo. C’è chi lo fa consapevolmente, c’è chi si inventa una ragione per farlo. Il contagio morboso è certamente un argomento forte; inizialmente è ragionevole proteggersi dall’altro, isolarsi, rinunciare a lavorare, chiudersi in casa quando il potere inganna e spaventa. Ma se dopo un anno, per poter far proprio l’argomento “pericoloso contagio” è necessario non solo recuperare ma cercare informazioni che confermino questo racconto, abbeverarsi in TV o sul web selezionando le fonti con lo scopo di rinforzare la favola che rende sciocchi; se lo si deve fare perché la percezione immediata ci direbbe il contrario, evidentemente c’è una oscura motivazione alle spalle che spinge in questa direzione.
Il conformismo
Affinché il gioco funzioni bisogna essere in tanti, bisogna ripetere che il vestito del Re è magnifico e che il Re è onnipotente, bisogna ripetere che la vita è in pericolo, puntellare la propria convinzione di essere in guerra, assediati dal nemico virus (ed in men che non si dica un gruppo di persone verrà suo malgrado incaricato di incarnarlo e diffonderlo, i non vaccinati per esempio). Bisogna allontanare il timore reale, ben più spaventoso del terrore provocato da una fiction, di essere stati oggetto di una allucinazione collettiva, trascinati in un delirio globale. Questo è il motivo per cui a questo punto si rileva, discutendo anche per pochi minuti con un abitudinario spettatore del serial Pandemia, l’ossessiva mania da parte dello stesso di affermare, spesso a suon di urla e insulti, la sua superiorità cognitiva, la sua specializzazione (quando sono patetici i babbei che ripetono al mattino l’ultima “scoperta scientifica” salvo poi dover ritrattare la sera, alla luce dell’ultimo talk show). Pandemia usa il terrore in qualità di colonna sonora, ma sa bene che deve rivolgersi al conformismo per poter continuare a procurare i suoi effetti politicamente indispensabili in un contesto economicamente devastato, in procinto di collassare. Il conformismo è una potente forza sociale, utilizzata per i più disparati scopi, ma indispensabile per sostenere il costo sociale di una guerra: la guerra contro i popoli. Non sarà facile disfarsi di Pandemia anche quando avrà fatto il suo tempo: se scomparirà lentamente, come le epidemie degli ultimi cinquant’anni, resterà nella storia, in quella storia prodotta ad immagine e somiglianza del mito. Se scomparirà in seguito al moltiplicarsi di insurrezioni popolari, pagheranno in tanti ed in tantissimi saranno protetti da un curioso meccanismo della mente: la rimozione.
Il grado di interazione tra individui del genere umano è così intenso da necessitare norme sociali, cioè regole che indicano i comportamenti ritenuti accettabili sul piano morale e i comportamenti inaccettabili. Quello del contagio morboso è il pericolo politicamente più efficace perché delinea, meglio di ogni altra ideologia, una gamma di comportamenti inaccettabili dai quali scaturiscono le sanzioni sociali preferite dal potere politico, per sua natura paranoico: la delazione, la caccia al nemico interno, la giustificazione di ogni abuso di potere. Da una parte il potere politico si solleva al di sopra di ogni limite impostogli dal diritto e dalle consuetudini; dall’altra la società si disgrega per riaggregarsi intorno al pericolo posto nella vita quotidiana dagli untori. L’ideologia del contagio, si tratti della diffusione di male o di malattia, cementa, meglio di qualunque altro strumento culturale, istituzioni totali e società intolleranti e autoritarie. E’ fin troppo lungo l’elenco dei poteri politici che contro la società hanno usato ed abusato di queste ideologie.
In questi contesti il conformismo opera, per così dire, mediante cooperazione tra forze convergenti. Gli interessi comuni riguardano, per l’appunto, il potere politico e gli stupidi, che hanno bisogno di ingessare, con lo scopo di sfruttarla, la società e la sua naturale disposizione ad ogni genere di negozio ed invenzione. I servi, di ogni ordine e grado, sono per loro natura incapaci di generare opere negoziabili, sono privi di creatività, in una società libera vengono messi al loro posto; i servi sono inclini all’ossequio nei confronti dei potenti, capaci di vivere solamente sotto la loro protezione. L’ideologia del contagio concede a questi ultimi la buona ragione per non pensare, per non vedere, per esercitare pur minime quote di potere sotto l’ombrello protettore dell’imperativo salute, che poi, nella dinamica attivata dall’ideologia del contagio, scivola abbastanza rapidamente verso la dicotomia salvatore-uccisore. Già ora chi non si sottopone volontariamente o obbligatoriamente alla terapia vaccinica, per quanto in buona salute ed immunologicamente ben dotato, viene accusato, dopo poche battute, di essere un potenziale assassino.
L’alto profilo morale dell’insurrezione
Si sarà notato che le persone che hanno stretto alleanza con il partito della Pandemia, militanti, simpatizzanti e suoi sostenitori in genere, partecipano di una cultura in declino. Partecipano di un sapere incapace di affermare concetti universali, immagini della dignità umana, profili di progresso civile. Pandemia li costringe a ricondurre ogni specifico problema sul piano non già della salute, bensì della vita e della morte individuale: qualsiasi tipo di malessere, un raffreddore, un mal di testa diventano un sintomo di morte dietro l’angolo, un monito della dea bendata. Attraverso questa strategia comunicativa che compone ogni sequenza televisiva, è possibile trascinare una società nelle tenebre, fare piazza pulita di qualsiasi diritto, generare agglomerati di questuanti, elemosinanti briciole di speranza; ed armare i moralisti di una “buona ragione” per poter finalmente esibire il loro moralismo. Aderendo al programma Pandemia si ottengono, in nome del bene pubblico, licenze speciali attraverso le quali discriminare, biasimare, colpire, ostracizzare e, all’estremo, uccidere. Qualcuno conterà i morti ammazzati dagli “errori” del sistema medico? Qualcuno sentenzierà sulla leggerezza con cui i medici per, appunto, conformismo, hanno accettato di fare ciò che sapevano essere sbagliato?
Appaiono, gli elettori del partito Pandemia, orfani di passato, orfani di futuro, funamboli in equilibrio precario apparentemente aggrappati alla loro vita biologica e solo a quella, in una parola disperati. Si notino i comportamenti dei mascheroinomani: aguzzano la vista in cerca di prede, sono alla caccia di smascherati, manifestano il bisogno di individuare il trasgressore per offenderlo, piegarlo mediante l’informale licenza offertagli dallo stato grazie alla quale, finalmente, possono fare ciò che, in quanto stupidi, hanno sempre desiderato fare ma il corpo di diritti e consuetudini civili non concedeva loro: rivalersi per le sfortune che la vita ha riservato loro e delle quali, ovviamente, non si sentono responsabili. Non è tutto ciò caduta nella nuda vita: è, al contrario, la mortificazione della vita, la scarnificazione dell’anima, ossimori dell’esistenza. Pandemia ha accecato i deboli di spirito, già poco avvezzi ad un rapporto equilibrato con la realtà, quindi con la vita, quindi con la morte: non riescono ad avvertire l’assurdo, a ragionare su un dato che sia uno, sono occupati a ripetere, ripetere, ripetere all’infinito tenebrose litanie. Pandemia ha fornito loro una religione incivile, la cui principale liturgia consiste nell’assistere ai bollettini quotidiani di guerra, nel pronunciare cinque volte al giorno l’atto di dolore e poi via, lungo la città in cerca dei colpevoli. Perché se c’è un carattere che distingue il conformismo culturale degli iscritti a Pandemia, questo è l’incapacità di recuperare nel dubbio e nella ragionevolezza l’energia intellettuale indispensabile a conservare i tratti della nostra civiltà ed a farla progredire: Pandemia conduce per mano, giorno dopo giorno, i suoi adepti nel fanatismo, chiede loro di costituirsi esercito e combattere, cioè fare pulizia degli infettatori. L’ideologia del contagio è sempre stata funzionale al potere costituito, quando questi temeva la rivolta dei produttori. Pandemia è l’ultima spiaggia di una società ammalata per eccesso di parassitismo, ed è perciò che possiamo finalmente dire a testa alta e con voce chiara che l’insurrezione è diventata un impegno di alto profilo morale e di importanza storica.
Questo lungo articolo non considera, come si sarà potuto notare, alcun dato statistico, alcun argomento che prenda sul serio l’ipotesi di una pericolosa malattia diffusasi nel corso dell’ultimo anno nel nostro pianeta, alcun riferimento medico. Se l’interlocutore è Pandemia nessun invito alla ricerca, alla riflessione, alla cura è possibile. Pandemia è un delirio, e i deliranti non sono nelle condizioni di discutere di alcunché: non sono spinti dalla ragione, non sono attratti dal benessere, non amano il sacrificio perché, quelli che riescono ancora a scorgere scampoli di futuro, li svalutano in misura iperbolica. I figli di Pandemia sono stati inghiottiti in un vortice: la combinazione fatale del principio del piacere che si sovrappone alla volontà di potenza.
La medicina, in quanto cura, attenzione per i più deboli, rimedio per gli infermi, è quanto di più distante si possa concepire dallo spettacolo offerto da Pandemia. La medicina non ama il palcoscenico, detesta i riflettori, procura all’ammalato (chi di noi, in qualche misura non lo è) il conforto di un sapere fallibile, alla cui modestia corrisponde la capacità di stabilire una vicinanza umana, una autentica compassione. Il chiasso di TV è intollerabile per Medicina, è deleterio per Ricerca, è controproducente per Salute, è erosivo per Pensiero. Questi concetti procurano alle persone oasi di nobiltà d’animo, intelligenza nella routine quotidiana: possiamo cercarli, li troveremo al Buon Albergo. La cura di sé esclude che si giunga in ufficio al mattino e qui si sia sottoposti al rimbombo delle notizie apprese la sera prima al telegiornale. Lo scienziato, se non è curioso, si occupa della sua carriera e quindi, nella società dello spettacolo, della sua visibilità, non degli arcani di Natura, accessibili al solo uomo, alla sola donna di vivo intuito. La salute concessaci dal servizio sanitario nazionale è confusa, frutto di un disperato girovagare tra ambulatori, pozioni, camici bianchi, macchinari; solo in alcuni fortunati casi estremi ci viene restituita dal dispositivo medico, se in esso si annida, clandestinamente, il Dottore che umilmente si piega sulle sofferenze del singolo e lo accompagna giorno dopo giorno, con dolcezza, verso il compimento del suo destino, che è il destino di tutti. La salute del singolo non può rientrare in un computo statistico, dove al massimo compaiono le malattie che caratterizzano una società, un’epoca. Si può pensare la complessità della Natura riducendola ad una minima porzione dell’Essere, come se l’Essere fosse disposto a lasciarsi imprigionare in un laboratorio? Si può pensare lo sconfinato mare su cui galleggiano i regni animali e vegetali, ingaggiando una lotta senza esclusione di colpi con la dimensione microscopica che ci avvolge, ci nutre, che protegge e regola quel poco di nuda vita che per ogni io che si affacci al mondo resta, anch’essa, incomprensibile dono, tragica fatalità o preludio ad un Gioia infinitamente più grande? Può dirsi già pensiero quello dei cacciatori-raccoglitori di virus e di batteri; quello dei progettatori di soluzioni finali nel mondo microscopico, quello che cerca cause semplici dove dominano meccanismi complessi?
Nel conflitto avviato da Pandemia si fa uso retorico di frammenti numerici privati di senso: il paziente e complicato lavoro d’inferenza viene avvilito dai titoli del giornalame di regime, chiasso su chiasso, confusione che alimenta confusione: “Il più alto numero di morti in Italia dal dopoguerra” (Da vent’anni a questa parte, grazie al boom delle nascite degli anni 50, iniziato con minore intensità nei cinque anni che hanno preceduto l’inizio della seconda guerra mondiale, ogni anno si registra il più alto numero di morti dal dopoguerra; ma ci fosse un sociologo che, dotato di coraggio, si ribellasse a questo torturare i numeri!).
Per quanto sia faticoso ammetterlo, siamo veramente chiamati alla guerra: non contro microscopici spezzoni di Natura ma contro stati al tramonto, al calare della loro maschera, contro il pericoloso prodotto di una improrogabile depressione economica, di un prevedibile cataclisma civile. Siamo di nuovo in guerra contro la banalità del male: lottiamo con tutte le nostre forze, insorgiamo, stringiamo alleanza con l’anarchia del Creato e raggiungeremo finalmente impreviste indipendenze.