di PAOLO LUCA BERNARDINI
Giunti quasi sul mare dall’Aurelia passando per una delle due strade che congiungono l’antica via romana con il borgo marinaro di Moneglia – quella a levante, al limitare di Deiva Marina, la strada da cui si giunge al piccolo cimitero collinare, romito, ove ho scelto di riposare quando Dio lo riterrà – mi sono imbattuto in una scritta singolare. Compare – e mi pare recente, o quantomeno non lo avevo mai notata prima – sul cancello metallico di un garage che sembra l’unico vano non in disuso di un vecchio edificio in rovina, sul fiume Bisagno.
Il fiumiciattolo che porta lo stesso nome del rigagnolo genovese che ogni tanto, periodicamente, si gonfia paurosamente, e porta morte e distruzione. Questo Bisagno qui è più modesto, invero, ma non meno infido e mutevole. L’edificio, forse un vecchio mulino ottocentesco, alimentato dall’acqua del fiumicello, ha il tetto sfondato e mi pare irrecuperabile. Una rovina discreta, ma non meno triste. Soprattutto se si considera che giace alle soglie di una ridente e vispa località balneare.
Ebbene, su questo cancello del garage forse intatto in mezzo alla rovina, visibile quasi frontalmente a chi giunga dall’alto, invisibile per chi salga la collina, compare una scritta: “Lo stato è TEMUTO”. Ma il modo in cui si compone la scritta è diverso: Lo stato è TE MUTO”. Il significato cambia radicalmente, a saper leggere i particolari, a saper interrogare – attività essenziale che ho sempre coltivato – tutti i dettagli.
Se lo stato è temuto, non si comprende se sia lo stato che ci obbliga a temerlo, o se si vogliano stigmatizzare i pavidi che, per l’appunto, lo stato temono. O semplicemente, enigmaticamente, indicare un “stato di fatto”. Non dovrebbero essere i sudditi a temere i governanti, ma il contrario. Ce lo ricorda come un mantra poi sempre ripetuto una lunga tradizione di pensiero libertario, in ultimo perfino il V del grandioso film, un vero inno alla libertà. Significa anche che se è “temuto” davvero, è poco amato. “Oderint dum metuant”. “Mi odino pure, purché mi temano”. Il principio imperiale romano poi applicato (in modi ogni volta diversi), da ogni stato.
Ma proviamo a leggere diversamente la scritta. “Lo stato è – TE MUTO”. Ovvero lo stato ti domina anche ontologicamente, appartiene alla sfera più elevata, quella dell’essere. Mentre tu – in un uso singolare ma ammesso nella lingua italiana dell’ablativo assoluto – sei, per l’appunto, “muto”. Accetti passivamente, non esisti proprio, o esisti in maniera subordinata. “Lo Stato È. Tu SEI MUTO”. Qualunque stato totalitario sognerebbe di perseguitare e sopprimere l’autore della scritta se fosse corretta la sua seconda, solo apparentemente fantasiosa, versione. La prima “lettura” non nuoce. Anzi.
Da ragazzo, mi imbattei in fumetto di sinistra, uno dei tanti che circolavano negli anni Settanta del secolo passato, disegnato in verità assai bene, e sceneggiato con intelligenza. Un operaio scrive sul muro del suo (tremendo) posto di lavoro: “Fabbrica in culo”. Ma i titolari della fabbrica lasciano correre, un suo legittimo sfogo, perché no. Ma poi si scopre che la scritta originaria non era “in culo”, ma “incubo”. La scritta dunque recitava “Fabbrica incubo”. E allora scatta la caccia e la terribile punizione per il suo autore. Sembra che entrambe le scritte denigrino il luogo di lavoro e i “padroni”, ma ovviamente il peso della frase originaria è molto più pesante. Forse molto più vero. Molto più destabilizzante. Come è accade con la scritta monegliese, se la seconda versione, la mia personale lettura, è quella vera.
Come diceva il grande giurista ed ebraista del Seicento inglese, John Selden (1584-1654), “syllables govern the world.” “Sillabe governano il mondo”. Come dargli torto?
Lo Stato È. A parte pochi, a parte noi, gli altri sono muti. E non sono.