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Combattere l’inflazione dando i numeri

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di MATTEO CORSINI

Per anni i sostenitori delle politiche monetarie utraespansive hanno rassicurato tutti quanti che non c’era un rischio inflattivo, perché gli indici dei prezzi al consumo registravano incrementi al di sotto del target del 2% annuo identificato dalla maggior parte delle banche centrali come sinonimo di stabilità dei prezzi.

Concetto che già di per sé dovrebbe fare riflettere, dato che se qualcosa è stabile non dovrebbe crescere più o meno costantemente del 2% all’anno. Ma tant’è.

L’inflazione monetaria distorceva al ribasso tassi di interesse e premi per il rischio, gonfiando i prezzi degli asset finanziari e reali, ma alcuni fattori, come la globalizzazione, i miglioramenti di produttività indotti dagli sviluppi tecnologici e l’invecchiamento della popolazione nei Paesi maggiormente sviluppati, contenevano le dinamiche dei prezzi al consumo.

Poi, complice la deglobalizzazione indotta dai vari lockdown degli ultimi due anni e le contemporanee politiche fiscali tipiche da ricetta MMT, hanno finito per portare la benzina monetaria a incendiare anche i prezzi al consumo. Alle prese con la necessità di rimandare il più possibile la riduzione dello stimolo monetario cercando al tempo stesso di non perdere totalmente credibilità, le banche centrali hanno per mesi sostenuto la tesi della temporaneità della crescita dei prezzi al consumo.

Al tempo stesso hanno dato il meglio di sé (se così si vuol dire) in un esercizio che, per la verità, è iniziato alcuni decenni fa, con la definizione di indici di prezzi via via più selettivi e meno volatili. Va da sé che tali indici tendenzialmente mostravano anche dinamiche di crescita più contenute.

Negli Stati Uniti sono sempre avanti rispetto al resto del mondo in questi esercizi di fantasia statistica. Per esempio, la Fed di Cleveland ha sviluppato un indice che misura la crescita mediana (invece che media) dei prezzi al consumo, mentre la Fed di Dallas ha creato un indice che esclude ogni mese i prezzi del minor 24% e maggior 31% della distribuzione.

Il Fondo Monetario Internazionale, bontà sua, ha impiegato alcune delle menti del suo ufficio studi per concludere che questi indici sono meno volatili di quelli “tradizionali”, suggerendo anche che “i motivi per la Fed di sostituire le misure tradizionali di inflazione core sono aumentati durante il 2020-21”. Purtroppo pare che, negli ultimi mesi, anche queste misure segnalino un incremento dei prezzi ben superiore al target ufficiale della Fed, perfino superiore a quello del tradizionale indice core, che esclude i prezzi dei beni alimentari ed energetici.

Arrivati a questo punto non mi stupirei se prossimamente uscissero studi farciti di complesse formule matematiche volti a giustificare l’identificazine del corretto indicatore di inflazione come la minor variazione di tutti i prezzi presenti nel paniere. E’ un po’ come mettere il termometro in frigorifero se segnala una temperatura da stato febbrile. Cosa non si farebbe per centrare l’obiettivo della stabilità dei prezzi…

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