di BEATRICE ROGGIA
Nel 1861, successivamente alla proclamazione del Regno d’Italia, lo Stato aveva un deficit di due miliardi e mezzo di lire, dovuto ai disavanzi degli ex Stati preunitari ed alle spese sostenute per le guerre d’indipendenza.
Il Governo effettuò una serie di interventi legislativi sia in ambito impositivo, che in ambito sanzionatorio, finalizzati ad incrementare il gettito erariale e ad estendere le imposte, le tasse e le tariffe dell’ex Regno di Sardegna ai territori degli ex Regni, con l’eccezione di alcuni territori dell’ex Stato della Chiesa e del Regno delle due Sicilie.
I tributi introdotti presentavano un’onerosità molto più elevata rispetto a quelli preunitari, determinando un rilevante aumento della pressione fiscale. Ciò determinava il diffondersi di un fenomeno, la cui misura non è accertata da fonti storiche, ma di cui il governo già percepiva l’importanza in un un’ottica di rilevante lesione degli interessi dello Stato: l’evasione fiscale.
La voce più rilevante delle entrate era costituita dai tributi doganali e fu proprio in questo ambito, che lo Stato effettuò il primo tentativo di fusione delle diverse disposizioni repressive preunitarie e di regolamentazione unitaria.
Il 21 ottobre 1861, a pochi mesi dalla proclamazione del Regno, fu emanato il “Regolamento doganale”, a cui fece seguito il d. lgs. 28 giugno 1866, n. 3020, con titolo “Del reato di contrabbando e delle pene cui saranno puniti coloro che lo commettono”. Benché la regolazione sanzionatoria in materia di imposte indirette non presentasse particolari resistenze, al contrario, quella in materia di imposte diretta presentava posizioni discordanti ed, in particolar modo, un’elevata resistenza all’introduzione di fattispecie penali.
La prima regolamentazione in materia di imposte dirette fu la legge 23 giugno 1873, n. 844, che restò sostanzialmente non applicata e considerata come un raro caso di desuetudine nella legislazione penale. Soltanto successivamente, la legge 9 dicembre 1928, n. 2834, “Penalità in materia di imposte dirette”, introdusse un complesso di sanzioni penali, che effettuavano la tutela nel momento della riscossione.
Il legislatore riteneva più rilevante la riscossione rispetto l’accertamento. Difatti, a titolo di esempio, si possono considerare l’art. 2, relativo all’omessa dichiarazione dei redditi, e l’art. 4, relativo agli atti finalizzati alla sottrazione di redditi dall’imposizione, che erano sanzionati con una sovraimposta proporzionale all’imposta evasa ed una sanzione pecuniaria per le fattispecie più rilevanti. Entrambe sono misure di natura civilistica.
Al contrario, la sottrazione fraudolenta al pagamento della somma accertata e dovuta a titolo di imposta, regolata dall’art. 6, comma 6, era punita con la detenzione e, se la fattispecie era posta in essere da un professionista, era presente una sanzione accessoria relativa alla sospensione dall’albo. In questo caso era comminata una sanzione di natura penale.
Le sanzioni previste dalla legge n. 2834/1928 erano nel complesso poco significative e consideravano l’evasione come un fenomeno limitato, che non poteva essere considerato al pari della sottrazione di ricchezza individuale collegata ai delitti contro il patrimonio. La legge introdusse le sanzioni penali in ambito tributario per la prima volta in Italia, ma era ancora lontana dal sistema sanzionatorio vero e proprio presentato dalla legge 7 gennaio 1929, n. 4.