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Modena, Angilberga e le fiamme del rogo

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di ALINA MESTRINER BENASSI

In un tempo assai lontano, quando la denominazione “Emilia” non era ancora usata (la regione era parte di quella ben più grande, detta Gallia Cisalpina dai Romani, e poi Longobardia dalla nobile gente che la resse), Modena conobbe il dominio dei re Franchi.

Nell’anno 753, S. Anselmo, già duca del Friuli e cognato di Astolfo, Re dei Longobardi, fonda il grandioso monastero di Nonantola, ma una decina d’anni dopo, il Re Desiderio, sospettando in lui un fautore del franco Carlo Magno, lo accusa di aver istigato Rachis a riprendersi il trono, cui aveva rinunciato per il chiostro. Il Santo è così relegato, in esilio, a Montecassino fino al 774, anno in cui Carlo, sconfitti i Longobardi, lo richiama per affidargli una nuova, importante missione. L’abile S. Anselmo, con l’autorità della sua parola, riduce alla obbedienza la fiera Brescia, ancora fedele al Duca Potone, nipote di Desiderio.

Il “tradimento” di Anselmo, questa volta, è ben remunerato con la conferma delle precedenti donazioni dei Re Longobardi alla Chiesa di Modena e con l’aggiunta di altre, frutto della riconoscenza franca. Quando, nell’anno 803, S. Anselmo muore, l’abazia di Nonantola, e con essa la Chiesa di Modena, si trovano a essere tra le più ricche e potenti d’Europa. Le antiche cronache cittadine non tramandano molto sulla dominazione franca, soprattutto intorno al periodo che seguì il regno di Carlo, rimane, al contrario, una iscrizione in memoria di Re Desiderio su una lapide, posta sulla parte più recente della Ghirlandina. Questo fatto la dice lunga sulle preferenze dei modenesi.

La Cronica della città di Modena del Panini, tramanda, tuttavia, il ricordo di un episodio che, a ben guardare, si confà più a quella cultura che i Romani prima, e i Franchi poi tentarono, con ogni mezzo, di estirpare: le antiche e sacre usanze pagane, che anche il Cristianesimo dovette, a lungo, tollerare.

Nell’anno 856, Angilberga, moglie del re franco Lodovico II, si invaghisce del cortigiano Ucpoldo, che però respinge, schifato, le sue avances. La regina, ferita nell’amor proprio, si vendica accusando il poveraccio di aver cercato di sedurla. Il credulo marito, senza esitare, manda a morte Ucpoldo. La vedova Andalberta, a sua volta, si ribella e, convocati in piazza, notabili, conti e chierici, pretende e ottiene, risoluta, il giudizio di Dio, per provare l’innocenza del consorte defunto. La donna, così, attraversa illesa le fiamme del rogo, il re si convince della perfidia della moglie e, per risarcimento, nomina il figlio di Andalberta, che aveva nome Ucpoldo come il padre, conte di Modena

 

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