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La controinformazione, tra credibilità e attività imprenditoriale

Da leggere

di PIETRO AGRIESTI

Viviamo in quella che si chiama “infodemia”, una tale moltitudine di informazioni e notizie e di fonti e di opinioni, che è diventato molto oneroso seguirle e sapersi orientare. Per questo proprio mentre tutti possono pubblicare, aprirsi il blog, scrivere sui social, lanciare newsletter, parlare di tutto e condividere di tutto, i media avrebbero ancora un gran lavoro da fare: per mediare le informazioni e le notizie, sintetizzarle, ordinarle, collegarle, dare possibili chiavi di lettura, renderle accessibili, separare il falso dal vero e il certo dall’incerto, chiarire l’orientamento dei diversi media e giornalisti, ecc. perché chi vuole informarsi e non può dedicare dieci ore al giorno a farlo e a verificare le informazioni (che comunque difficilmente basterebbero, nemmeno per una persona preparata e capace di usare i migliori strumenti tecnici) deve avere la possibilità di trovare il lavoro già fatto (la famosa divisione del lavoro).

Per di più, vivendo in democrazia un minimo di informazione, senso critico, panoramica delle opinioni esistenti, conoscenza dell’attualità, sarebbe bene che tutti o quasi lo avessero, fatto salvo che poi uno fa quello che può e segue di più quello che lo tocca più direttamente o gli interessa maggiormente.

Non si tratta necessariamente di produrre cose originali, ma di fare un lavoro di mediazione e divulgazione, per cui quando torno a casa dal lavoro, sono stanco, guardo lo smartphone sull’autobus quella mezz’ora, o dopo cena sul divano davanti alla tv, o in bagno mentre sto sulla tazza, dove una volta leggevo Topolino e ora cazzeggio con il cellulare, e ho una soglia dell’attenzione medio bassa, e voglio usufruire “passivamente” dell’informazione, non andare a cercare proattivamente questo e quello, io possa trovare qualcosa di qualità nel rispondere alle mie esigenze.

Oggi le rassegne stampa (come quella di Jim Cardoza o quella di Wendy McElroy o quella di Tablet), i siti di aggregazione dei contenuti (come quelli di Realclearmedia) e le applicazioni di aggregazione dei contenuti (come Feedly o Inoreader) e quelle di archiviazione e classificazione dei contenuti (come Pocket), sono più importanti che mai, per navigare il marasma dell’informazione. E non solo: sono nati browser dedicati essenzialmente alle notizie, che per esempio indicano l’orientamento di tutti i media e gli autori, e permettono ad esempio di cercare solo fra quelli di orientamento X o Y, o di vedere tutti gli articoli di tutti gli orientamenti sulla notizia N (vedasi Freespoke).

Sono nate Newsletter come Tangle, che sono strutturate per analizzare una notizia in ogni numero, dando la notizia in modo strettamente fattuale/minimal, cosa ne dice la destra, cosa ne dice la sinistra, cosa ne pensa l’autore della newsletter. Sono nati siti dedicati a individuare l’orientamento dei media come Allsides. Ci sono siti tematici che coprono in modo precisissimo argomenti precisi, in modo che se appena appena vuoi essere aggiornato su qualcosa che ha a che fare con quell’argomento puoi andare lì a colpo sicuro, come Reclaim The Net, dove esce più o meno qualsiasi notizia che abbia a che fare con la censura online. Ma anche un buon tg, o un buon gr, avrebbero molto senso oggi: perché c’è una redazione che seleziona le notizie rilevanti e le divulga. Quindi il lavoro da fare oggi per il giornalismo inteso come investigazione, inchiesta, scoperta della notizia, rivelazione è ovviamente enorme, ma è enorme anche quello per chi non scopre niente di nuovo, ma semplicemente media e divulga.

In questo panorama diventare un punto di riferimento affidabile e degno di fiducia è tutto: siccome la gente non può consultare e confrontare mille media diversi e mille pareri diversi e non ha gli strumenti per farlo nemmeno volendo, trovare qualcuno che lo faccia al posto suo è essenziale, ma deve essere qualcuno di affidabile per demandargli questo lavoro. E questo conta più dell’avere le stesse idee e lo stesso orientamento politico.

Per dire io seguo Greenwald da anni, e ormai lo ritengo affidabile, per cui generalmente mi fido di quello che dice. Questo perché l’ho visto sempre restare coerente con le sue idee, prendersi grandi rischi professionali e personali per le sue idee, ammettere i proprio errori, confrontarsi con chi la pensa diversamente, resistere a ogni sorta di pressione, perseverare mentre veniva attaccato da destra e da sinistra, distinguere le cose di cui è certo e quelle di cui non lo è, documentare in modo preciso e costante le proprie affermazioni, ecc. e oggi Greenwald fa i milioni col suo lavoro, giustamente.

Non me ne frega niente se è ben più a sinistra di me su tante cose. Lo stesso vale per Tangle, di Isaac Saul, che è molto più recente, ma è fatta davvero molto bene. E dà spazio al confronto coi lettori e alla correzione degli errori. Lo stesso vale per Guerre di Rete di Carola Frediani. E alla fine oggi la strategia più comune è non seguire giornali generalisti nella loro interezza, ma determinate firme o siti, trovando quelli affidabili sui vari argomenti o quelli più interessanti e seguendo solo loro, tramite applicazioni come Feedly o simili che permettono di visualizzare tutto ciò che ti interessa in un unico posto (blog, newsletter, tweet, substack, etc..).

Diventare uno di questi punti di riferimento è senza dubbio stato uno degli obbiettivi che ha spinto tanti giornalisti a uscire dai giornali per mettersi in proprio su Substack e Rumble. Di fatto è sicuramente anche questo genere di riflessione che ha spinto i creatori di Substack o Rumble a crearli. L’accoppiata è totale libertà di parola (Primo emendamento) e di impresa, e grande qualità del lavoro fatto per emergere come “mediatore, divulgatore, commentatore, analista” affidabile. Lo stesso probabilmente per Artifact, un social che non si basa sulla rete sociale degli utenti, ma presenta una sorta di news feed personalizzato tramite un algoritmo, e permette agli utenti di commentarle: essenzialmente cerca di stimolare la discussione fra utenti.

Information concept: computer keyboard with Head With Padlock icon and word Data Loss, selected focus on enter button, 3d render

In tutto questo l’AI potrà aiutare a scrivere, fungere da super motore di ricerca (se la sai usare, non per nulla è nata la professione di Prompt engineer. cioè dello specializzato nel formulare i comandi giusti per l’AI), aiutare a tradurre, a sintetizzare, a scrivere, ma non è altro che uno strumento per levarsi dai coglioni una serie di lavori pallosi, e farli meglio e in modo più veloce e affidabile, così da potersi concentrare su ciò che conta.

L’AI può essere un supporto straordinario per un lavoro che però dal momento che richiede comunque decisioni, scelte, valutazioni, etc.. l’AI non può e non potrà fare, perché non ha a che fare con la potenza di calcolo e la quantità di dati immessi. Insomma l’AI, esattamente come la lavatrice o l’asciugatrice peraltro, permetterà di aumentare la produttività e di spostarsi verso lavori più qualificati, meno stupidi, noiosi e faticosi, migliorando sensibilmente le condizioni di lavoro e il benessere. O almeno questo è il potenziale buono dell’AI.

Certo, si noterà, sono tutte dinamiche ben poco presenti in Italia, infatti a parte Guerre di Rete ho citato solo esempi non italiani. In Italia ben pochi giornalisti main stream lasciano il lavoro e si mettono in proprio su Substack e Rumble, non abbiamo browser come Freespoke, non abbiamo newsletter come Tangle, non abbiamo progetti come AllSides, non abbiamo sviluppato noi Feedly, Inoreader, Artifact o niente altro, non abbiamo aggregatori della qualità di Realclear media, ecc. Abbiamo un vivace sotto bosco di media che fanno “contro informazione”, ma questa è tutta un’altra cosa.

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