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Divisioni politiche e sociali: la disforia sessuale è l’emblema del dramma del nostro tempo

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di MARCO BASSANI

Circa due secoli e mezzo fa inizia in Europa e in America la politica moderna. Si tratta di nuova forma di lotta per il potere, contesa che in prima battuta riguarda sempre meno di una persona su centomila da sempre, ma che dalla seconda metà del Settecento prevede il coinvolgimento, almeno potenziale, del popolo intero. Da allora sono state forgiate divisioni di ogni tipo fra la popolazione per favorire l’antagonismo fra classi e contro classi dirigenti.

Il principio, filosofico prima ancora che giuridico, dell’uguaglianza assoluta si scontrava con la difesa delle diseguaglianze che si erano stratificate nel corso dei secoli. Per quasi duecento anni l’allargamento del suffragio rappresenta il basso continuo dell’Occidente e ogni battaglia per collegare voto e status, diritti e censo diventa semplicemente di retroguardia.

L’irrompere del sistema di fabbrica forza l’orizzonte sociale al punto che la democrazia si ristruttura su di una sola divisione: quella della legittimità del modo capitalistico di produzione della ricchezza. Ma siccome non esiste che un modo di produrre la ricchezza, visto che ogni altro tentativo nella storia ha prodotto solo miseria, nel corso del tempo la divisione ultima diventerà quella familiare per le ultime tre o quattro generazioni: quanto Stato e quanto mercato sono tollerabili in un’economia, almeno formalmente, libera. Negli ultimi decenni, data l’appetibilità assoluta del welfare State, le divisioni si sono concentrate su quanto welfare e per chi. È questo il fondamento del dibattito sull’immigrazione, che dopo il crollo del comunismo ha visto due schieramenti in un certo senso inediti.

In occidente i partiti a vario titolo marxisti immediatamente trovano una nuova ragione sociale: la difesa a oltranza dello Stato assistenziale, che poi è l’ideologia di un apparato burocratico che tutto conosce e rimodella a piacimento la realtà sociale. Però il punto di rottura rappresentato dalle migrazioni e dalla loro tendenziale incompatibilità con il “welfare State” è stato per molto tempo sottovalutato. Mentre l’accoglienza appariva forse un dovere morale paragonabile al miglioramento delle condizioni di lavoro del proletariato, le frontiere aperte, al contrario, minano un sistema, quello del welfare, sul quale la sinistra ha puntato tutto. E la vasta area della “non sinistra” lo sa talmente bene, che riscuote i successi maggiori proprio fra gli autoctoni poveri, promettendo loro che saranno sempre i primi ad ottenere gli ammortizzatori sociali e gli ultimi a perdere la risorse di uno Stato che pure non riesce a governare in alcun modo i flussi migratori. In questo la destra europea presenta una maggiore coerenza interna: il sistema dello Stato sociale, infatti, è chiuso, si nutre di un’ideologia confinaria, si sviluppa in un mondo – quello della Guerra Fredda – impermeabile alle migrazioni e con confini rigidissimi. Concedere “diritti di cittadinanza” a chiunque riesca a salvarsi da un viaggio pericolosissimo ed entrare in Europa, alla lunga appare una promessa irrealistica, prima che foriera di conflitti sociali.

Nell’ultimo quindicennio, accanto a tutte le divisioni prodotte dalla lotta politica, sopite, ma mai scomparse del tutto, ossia a margine della questione sociale variamente prodotta dall’economia di mercato, ne sta venendo fuori prepotentemente un’altra, che è destinata a mutare lo stato di cose esistenti.

Si tratta di una divisione che è una vera rivolta contro la natura – ma in fondo anche il socialismo e l’egalitarismo estremo lo erano – e vuole ribaltare un mondo che su questo versante non si era mai posto domande per venticinque secoli. Rispetto alle grandi divisioni storiche che hanno fatto da sfondo alla lotta per il potere, quest’ultima può sembrare un dettaglio, ma non lo è affatto. O se lo è, è una sfumatura che riassume tutto il mondo impolitico di oggi.

La nuova frattura verte su sessi e generi e sta ormai creando due campi che diventano sempre più ostili. Da un lato vi sono coloro che ritengono che i cuccioli degli uomini vengano al mondo come maschi o femmine (che ovviamente possono sviluppare preferenze sessuali eterodosse, ma ciò è l’eccezione, non la regola) e dall’altro sempre più ampio è il numero di coloro che pensano a un mondo indeciso e impregiudicato dalla Natura e dal Dio della Natura, nel quale ognuno può reinventarsi come meglio crede e nel quale l’intera società debba essere costruita a misura di colui il quale ha la più acuta disforia sessuale.

John Rawls, un importante filosofo politico americano, nel 1971 scrisse “Una teoria della giustizia”, saggio nel quale sosteneva, in estrema sintesi, che il capitalismo avrebbe potuto essere il sistema economico di una società giusta, ma solo se le istituzioni statali avessero adottato politiche volte a far sì che le differenze di reddito andassero a favore dei meno avvantaggiati. Insomma, la condizione sociale degli ultimi diventava il metro per misurare le istituzioni sociali.

Oggi si sta facendo strada una sorta di rawlsismo rivisitato: la società è tanto più giusta quanto più accomoda esigenze che un tempo avremmo considerato di carattere privato e che però oggi devono occupare tutto lo spazio del discorso pubblico. E la disforia sessuale è l’emblema del dramma del nostro tempo. Se tutto il mondo deve essere ricreato a partire dalle differenze di genere, e se di generi ce ne sono una settantina – ne hanno inventato uno anche per gli uomini intrappolati in corpi da uomini, cisgender, ossia chi è a proprio agio con il genere biologico, chi vive con una certa tranquillità l’essere nato maschio o femmina – diventa fondamentale creare uno spazio sociale nel quale chi si sente donna sia da tutti riconosciuta come tale, a prescindere dal fatto che il giorno della nascita un ingenuo dottore scrisse “maschio” sul suo certificato.

Il campo di battaglia più recente fra queste inconciliabili visioni del mondo sembrano essere gli sport femminili. Gli eredi del gruppo che nel corso del tempo proclamava prima l’uguaglianza assoluta, poi l’intollerabilità del capitalismo come modo di riproduzione dell’esistenza umana sul pianeta, e infine che più Stato sociale c’è e meglio è per tutti, vorrebbero aprire gli sport femminili a tutte le donne, anche se non venute al mondo come tali. I fedeli attardati di un mondo che fu sostengono invece che questo significherebbe la fine degli sport femminili.

Vi è da notare, per inciso, che le donne oggi fanno quasi tutto quello che un giorno era riservato agli uomini, a cominciare dall’essere schierate sui campi di battaglia fino agli incontri di boxe. Mio nonno sicuramente avrebbe trovato riprovevole che una donna combattesse con un uomo su un ring, ma anche con un’altra donna.

Il punto è che in parte i “genderisti” hanno ragione. Le differenze sessuali sono frutto (anche) di una costruzione culturale, che però ha consentito alla società di riprodursi e progredire. Più i sessi vengono messi in discussione e più generi vengono alla luce. Il che vuol dire che la cultura ha infinite possibilità di agire su sesso e carattere. Una giovane alla quale viene ripetuto fin dalla nascita che non si sa se sia davvero una femmina e che si potrà riprogettare come meglio credere in adolescenza ha molte più probabilità di non sentirsi a proprio agio con il sesso che le è stato assegnato dalla Natura. Se i ruoli sessuali sono una costruzione culturale, la cultura agisce ancor più violentemente e in modo iconoclasta nel mettere in discussione un mondo di semplici maschi e femmine. E non sono del tutto convinto che una società nella quale i cisgender saranno una minoranza come un’altra avrà alla fine la possibilità di proseguire l’umana avventura sul pianeta.

Molti pericoli, immaginati e spesso immaginari, che i pensatori apocalittici hanno annunciato per il futuro della specie umana, dalla trappola malthusiana, alla fine delle risorse, al riscaldamento globale, attraggono ancora la nostra attenzione. La confusione dei sessi non era stata prevista da nessuno come pericolo. Ma è potenzialmente quella maggiormente in grado di far capitolare definitivamentel’Occidente, perché riguarda la vita stessa. Nel ’68 gli studenti in rivolta scrivevano sui muri delle università: la cultura è l’inversione della vita. Non avevano la più pallida idea di quanto vicini fossero alla verità.

 

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