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Social, informazione, disinformazione: tutto quello che vorrei è “libero mercato”

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di PIETRO AGRIESTI 

Io sono un accanito critico della lotta alla disinformazione. Può sembrare quindi che sostenga che il fact checking o la moderazione sui social non dovrebbero esistere. Ma in realtà non è così. Io non dico che uno non possa aprire un sito e chiamarlo bufale.net, facta, truenumbers, pagella politica, open, etc.. e fare articoli di fact checking. Uno può fare quello che vuole. Si chiama libero mercato, libera impresa, libero scambio, libertà di espressione.

Persino se non capisci bene l’italiano, non sai bene cosa stai facendo, sei intellettualmente limitato, e i tuoi tentativi di fare fact checking sono penosi e ti fanno apparire un completo deficiente, insomma anche se sei David Puente, chi sono io per impedirti di umiliarti così?

Ugualmente, non dico che una piattaforma non possa avere delle linee di moderazione. Una piattaforma dovrebbe essere libera di adottare la moderazione che crede, tanto minimal o pesante quanto ritiene. Tra l’altro senza alcuna moderazione e senza alcun algoritmo l’esperienza utente su molte piattaforme farebbe schifo.

Penso che una piattaforma o un servizio non abbiano nemmeno l’obbligo di rivolgersi a tutti: piattaforme come Truth o Gab sono chiaramente rivolte a una specifica parte politica, Rumble a chi più di ogni altra cosa detesta la censura, Substack a chi oltre a volere una moderazione minimal ama la lettura e i pezzi lunghi, Twitter/X è stata a lungo una piattaforma usata da chi cercava notizie al volo, ci sono piattaforme dove si possono condividere solo immagini o video, o dove i post durano solo per poco tempo e poi scompaiono, e così via, tante altre piattaforme possono essere rivolte ad altri segmenti, come avviene per esempio per i contenuti hot e gli incontri sessuali, con social come Only Fans e app come Tinder, Grindr, etc…; insomma ci sono e ci possono essere le piattaforme, le app e i servizi più diversi per le esigenze più disparate e su ognuna può avere senso un tipo di moderazione diversa.

Ma è molto diverso immaginare tutto questo in una condizione di libero mercato, con gli incentivi dati dai meccanismi di mercato, come la domanda e l’offerta e la concorrenza, e regolata dal normale diritto dei contratti, rispetto a una condizione dove la moderazione delle piattaforme è impostata, diretta, coordinata, dagli apparati politici.

È diverso un contesto in cui l’amministrazione USA esercita il grado di pressione e controllo emerso dai Twitter Files e dalle seguenti inchieste e cause, o quello in cui esistono il Digital Service Act e il fanatico commissario Thierry Breton. È diverso un contesto dove la lotta alla disinformazione e ai discorsi d’odio si traduce in una serie di obblighi per le piattaforme, riguardanti anche il fact checking e la moderazione, e in corrispondenti sanzioni e reati.

Si crea un contesto dove non sono più le piattaforme a scegliere le proprie linee di moderazione, non sono più padrone di sé stesse e non sono più guidate da meccanismi di mercato. Non è più qualcosa che decidono in base al modello di business che hanno in mente, ai risultati che ottengono, ai dati raccolti sull’esperienza utente, studiando le scelte dei competitor, etc… Non è più qualcosa su cui le piattaforme possono diversificarsi fra loro facendo scelte differenti e andando a coprire diverse esigenze e segmenti di mercato.

Significa fare delle piattaforme e dei fact checkers una sorta di appendice degli apparati statali, significa che verranno usati dalla politica e dagli apparati statali per controllare indirettamente la discussione pubblica e l’informazione. Significa che i fact checkers, un po’ come i notai e i commercialisti, saranno una classe di professionisti la cui esistenza più che essere dovuta a una domanda di mercato sarà evocata ad esistere dalla politica, e ne dovrà risponde. Significa in buona parte anche la lottizzazione politica e la corruzione di questi settori.

Tutte queste norme sono inoltre anche una grande barriera all’ingresso che limita la concorrenza nel settore, garantendo agli insiders una indebita protezione, il che conviene a una politica della concertazione che certamente preferisce pochi grandi attori dominanti e stabili con cui sedersi al tavolo.

Nel corso degli anni il mercato ha comunque prodotto concorrenza e alternative, anche mirate ad affrontare il problema degli obblighi di moderazione e censura posti dalla politica, come Substack e Rumble: due piattaforme che per esempio negli ultimi anni hanno adottato una moderazione minimal, facendo della difesa di una ampia libertà di espressione il proprio modello di business, con un notevole successo economico. Tuttavia entrambe sono state attaccate, anche sul piano politico e legale, e hanno dovuto abbandonare dei mercati o cambiare le proprie scelte.

È chiaro quindi che anche l’enorme potere di alcune Big Tech deriva da questa limitazione del mercato e della concorrenza, che poi si aggiunge a tutte le altre generali limitazioni sulla libertà di impresa, di risparmio, di investimento, etc… già esistenti.

Il fatto che gli anticapitalisti di sinistra e di destra siano favorevole a questa ennesima invasione politico burocratica non stupisce visto che la politicizzazione, la burocratizzazione, il dirigismo, la soppressione della proprietà privata, il rifiuto dei meccanismi di mercato, della libera impresa e della libertà individuale in generale, è l’essenza della loro filosofia politica. Idem non stupisce che lo siano gli apparati amministrativi stessi, politici e burocrati in quanto tali e senza distinzione di orientamento politico, hanno un oggettivo, concreto, razionale e comprensibile interesse ad estendere il proprio potere, le proprie risorse e il proprio controllo sulla società, a sfuggire ai controlli democratici e ai limiti che gli vengono posti.

Ma dal punto di vista di un semplice cittadino separare la politica e gli apparati statali dai media, dalla rete, dai social, dai motori di ricerca, dai servizi di hosting e da quelli di pagamento, etc… vorrebbe dire aumentare la “accountability” sia della politica che di queste aziende. Più indipendenza significherebbe maggiori controlli sulla politica e su cosa combinano le nostre istituzioni e i nostri apparati, più limiti al loro potere e meno conflitti di interesse, ma anche aziende più dipendenti da meccanismi di mercato che alla fine altro non fanno che collegarle alle esigenze dei consumatori e in generale di tutti quanti.

Anche se molte persone hanno difficoltà a capirlo, un contesto di genuino libero mercato è un contesto di relazioni pacifiche e volontarie. In un contesto simile di fatto un’impresa, ad esempio Facebook, non è altro che una comunità volontaria: i suoi utenti, dipendenti, fornitori, soci, azionisti, inserzionisti, etc.. sono tutti tali volontariamente. Questa volontarietà delle relazioni vuol dire che Facebook, al contrario della politica, degli stati e dei loro apparati, non può costringere semplicemente le persone a fare quello che vuole e quindi dipende dal loro consenso.

In un contesto di volontarismo, può sembrare contro intuitivo, nessuno può fare semplicemente quello che vuole, nel senso che tutti dipendono dal consenso altrui e non possono passarci sopra con la violenza.

Quello che vuole senza badare agli altri lo può fare chi dispone dei mezzi coercitivi, e con essi si rende indipendente dal consenso altrui e può dare libero sfogo alla sua prepotenza. In pratica, Facebook in un simile contesto esisterebbe sul consenso di chi scegliesse di parteciparvi in vari modi e ruoli. E se questo consenso venisse ritirato andrebbe in crisi.

Il rapporto con la politica rende invece le aziende indipendenti, almeno in parte, da questi meccanismi: le rende meno dipendenti dagli aspetti volontaristici del mercato. Ecco alcuni aspetti su cui possiamo fare questa riflessione generale:

  • Il liberalismo ci insegna che la politica è coercizione e che per poter convivere in modo pacifico e civile fra diversi la politica e la coercizione vanno limitate (e meglio eliminate, ma non è più liberalismo è anarchia).
  • La convivenza ha bisogno di libertà, perché la libertà garantisce un contesto dove ciascuno può fare a modo proprio, anziché uno in cui chi vince impone a tutti di fare come dice lui.
  • In una società liberale e tollerante, nel nome di questa garanzia per sé, ciascuno accorda la stessa garanzia anche agli altri.

Allo stesso tempo il liberalismo ci insegna che la convivenza civile e pacifica, oltre che con la libertà politica, va a braccetto con quella economica e che le due sono di fatto facce della stessa medaglia. All’estendersi di un contesto di libero mercato, corrisponde l’estensione dei possibili match di preferenze.

Pensiamo che uno scambio volontario avviene quando vi è un match (punto d’incontro, ndr) tra le preferenze di due persone: io preferisco avere un chilo di pane che cinque euro, il panettiere preferisce avere cinque euro che un chilo di pane, ed ecco che dall’incontro di queste preferenze deriva il nostro scambio, con reciproca soddisfazione. Naturalmente però la mia preferenza è contingente ed è legata alle scelte che ritengo di avere a disposizione: non è la preferenza che avrei in assoluto se avessi a disposizione tutte le scelte del mondo.

Detto ciò, l’estendersi del numero di scelte a mia disposizione, e quindi dei possibili incontri di preferenze, si traduce nel mio passare a scelte sempre più vicine alle mie preferenze assolute, con minori compromessi. Posto che nessuno può rendere possibile l’impossibile, l’estendersi del libero mercato significa maggiori beni e servizi, maggiori scambi, maggiori risorse, maggiori possibili match di preferenze, maggiori possibilità di associarsi o non associarsi e maggiori possibilità di campare in modo civile, pacifico e soddisfacente.

In questo mondo, consentendo alle persone di avvicinare le proprie vite alle proprie preferenze e dando loro maggiore libertà di discriminazione, contribuisce ad estendere le possibilità della convivenza civile e pacifica fra diversi e a rendere più facile e sostenibile la tolleranza reciproca.

Nel liberalismo il successo, la ricchezza e il benessere altrui non sono un danno, ma un vantaggio per tutti gli altri, e contribuiscono non solo al benessere economico generale, ma anche a quello sociale, per così dire. Tutto questo processo di armonizzazione reciproca tra le diverse esigenze, preferenze, etc… di tutti – che è ovviamente un processo sempre incompleto e imperfetto e sicuramente non istantaneo – potrebbe funzionare benissimo anche nel settore dell’informazione, dei media, dei social e dei servizi online (come in parte già avviene).

Invece la coercizione, la politica, la burocrazia, il dirigismo, la censura, i reati di opinione, il protezionismo, etc… che ci sono stati e ci vengono proposti sempre più negli ultimi anni, contro il Farwest del libero mercato, non solo non sono necessari, ma peggiorano tutto e sono in buona parte responsabili della crescente – e giustificata – sfiducia verso le istituzioni e i media mainstream.

Alla fine insomma, mi si darà dell’ingenuo, ma dopo tanti anni in cui ne ho viste di ogni, resto un libertario semplice: tutto quello che vorrei è un libero mercato, con tutte le sue possibili imperfezioni.

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