di MATTEO CORSINI
Donald Trump non è ancora (ri)entrato alla Casa Bianca da presidente che i sacerdoti di Diversity, Equity and Inclusion (DEI) intasano i mezzi di informazione di piagnistei. Su Bloomberg, per esempio, mi sono imbattuto in un articolo della a me sconosciuta Anna Gifty Opoku-Agyeman, che paventa l’allargamento del gap di ricchezza tra razze se si accentuerà l’attacco alla DEI. Con argomentazioni tipicamente socialiste, oltre che illogiche.
Per esempio, parrebbe che “la generazione di ricchezza negli Stati Uniti dipenda storicamente da tre fattori: istruzione, lavori ben retribuiti e investimenti profittevoli”. In realtà sono gli investimenti profittevoli che consentono lavori ben retribuiti e anche, di conseguenza, migliore istruzione (anche quando quest’ultima è finanziata dalle tasse).
Ci viene detto anche che la DEI non vada a detrimento del merito e delle competenze. Ma questo è logicamente impossibile, perché se considerazioni in merito alla razza, al genere o altro sono anteposte alla mera valutazione delle competenze o dei meriti scolastici, significa che non si può escludere che la DEI vada a detrimento di individui che non appartengono alla minoranza “giusta”. Ma basarsi solo sul merito e sulle competenze sarebbe un “cavallo di troia”. In sostanza chi si oppone alla DEI vorrebbe mantenere le minoranze in una situazione di minore ricchezza.
Il che significa, in buona sostanza, assumere come un dogma che tutti coloro che si oppongono alla DEI siano come degli schiavisti di uno Stato del Sud di due secoli fa. Non è ovviamente possibile escludere che ci siano anche persone di questo orientamento, ma è abbastanza logico ipotizzare che, in realtà, la maggior parte di coloro che si oppongono alla DEI lo facciano per evitare una sorta di razzismo e trattamento discriminatorio al contrario. Oltre alla retorica evidentemente ritenuta nauseabonda.
Studi che dimostrano come l’eliminazione di programmi di selezione basati sulle affirmative action abbia portato a una riduzione dell’accesso a determinate università da parte di individui appartenenti alle minoranze sono utilizzati come prova del dominio del suprematismo bianco. Ma si può argomentare semmai il contrario: se a essere valutati sono i risultati scolastici e le competenze, una parte delle minoranze che prima accedeva lo faceva, evidentemente, senza avere superiori competenze.
Tutto ciò detto, qualunque soggetto privato può decidere di adottare criteri DEI nella propria organizzazione. Diverso è il caso in cui quegli stessi criteri siano imposti in casi nei quali a pagare il conto sono i pagatori di tasse. In ogni caso, considerando che anche diversi elettori appartenenti alle minoranze hanno preferito Trump a Harris, credo che i sacertodi della DEI dovrebbero riflettere, invece che ripetere le stesse cose come dei dischi rotti (di musica inascoltabile).
Purtroppo le menate di tipo DEI hanno contagiato non dico facoltà umanistiche ovvero chiacchierifici vari, ma pure il caro, vecchio, pragmatico, solido, tetragono, mitico poli di Torino, ormai trasformato in un istituto pindarico. patafisico e distopico ad oltranza in cui ora non mi riconosco più e mi vergogno di averne fatto parte.
https://www.polito.it/ateneo/parita-welfare-e-inclusione/genere-diversity-e-inclusione
Ricossa ne sarebbe indignato