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Perché non credo più ai media tradizionali e me ne tengo lontano

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di ANDREAS ARNO MICHAEL VOIGHT

Ci sono momenti nella vita in cui ti accorgi che qualcosa non torna. Può essere un dettaglio, una sfumatura, una frase stonata detta nel momento sbagliato. E quando hai passato anni a studiare tecniche di propaganda, a smontarle, a riconoscerne l’odore a pochi centimetri dal naso, cominci a notarle ovunque. Nei titoli di giornale, nelle aperture dei telegiornali, nei talk show radiofonici. È un odore sottile ma persistente, che ti resta addosso anche se cerchi di ignorarlo. E così, piano piano, ho smesso di credere all’informazione tradizionale.

Non si tratta di diffidenza fine a se stessa, né di quel cinismo distruttivo che porta a non credere più in nulla. È qualcosa di diverso, di più profondo. È il risultato di anni passati a osservare il modo in cui le informazioni vengono costruite, filtrate, confezionate e distribuite con un preciso intento: orientare il pensiero, guidare l’opinione pubblica, spingere verso una direzione piuttosto che un’altra. E qui sta il punto: io queste dinamiche le conosco bene, perché ne faccio parte.

Sono un tecnico pubblicitario, un esperto di comunicazione persuasiva, e so che, alla fine, la propaganda e la pubblicità non sono poi così diverse. Cambia il fine, certo. La propaganda politica e sociale cerca di influenzare le convinzioni e il comportamento delle persone su temi che riguardano la società, l’economia, la geopolitica. La pubblicità fa lo stesso, ma con un obiettivo commerciale: convincerti che hai bisogno di un prodotto, che un brand è migliore di un altro, che la tua identità passa anche attraverso ciò che acquisti. Non c’è differenza di metodo.

La costruzione del messaggio, la gestione delle emozioni, l’uso di trigger psicologici: sono strumenti che conosco bene, che ho studiato e applicato per anni. E proprio perché li conosco, so riconoscerli quando vengono usati nei media tradizionali. C’è un punto in cui la propaganda e l’informazione si sovrappongono, ed è quello in cui entrano in gioco le emozioni. Perché la propaganda, quando è fatta bene, non ti dice cosa pensare. Ti fa sentire qualcosa. Rabbia, paura, indignazione, entusiasmo. Qualunque cosa pur di spegnere il pensiero critico e accendere la reazione istintiva. E questo è il problema.

Quando siamo emotivamente coinvolti, smettiamo di ragionare. Commentiamo d’impulso, ci schieriamo, difendiamo una posizione più per orgoglio che per convinzione razionale. Lo vedo negli altri, ma lo vedo anche in me. So come funziona, eppure a volte ci casco lo stesso. Perché siamo umani, e le emozioni fanno parte di noi. Ecco perché ho scelto di fare un passo indietro. Di non lasciarmi travolgere dall’informazione immediata, dai titoli sensazionalistici, dalle notizie che sembrano progettate per incendiare l’opinione pubblica. Provo a fare qualcosa di diverso: lascio maturare le informazioni. Non sempre ci riesco, ma ci provo. Aspetto, osservo, confronto. Cerco di capire il contesto, di verificare le fonti, di ricostruire il quadro completo senza farmi influenzare dalla prima emozione che mi assale. È faticoso, richiede tempo, ma mi permette di vedere le cose in modo più lucido. Non voglio dire che tutti i giornalisti siano manipolatori o che l’informazione sia sempre falsa.

Ci sono professionisti seri, fonti affidabili, inchieste preziose. Ma il problema è il sistema in cui operano: un sistema che premia la velocità più della precisione, l’emozione più della riflessione, la narrazione più della verità. E allora come ho detto sopra, preferisco fare un passo di lato. Non mi isolo, non mi chiudo in una bolla, ma scelgo con attenzione cosa leggere, cosa ascoltare, cosa prendere sul serio.

Non voglio essere trascinato in una guerra di opinioni basata su slogan e reazioni di pancia. Voglio capire davvero, anche se questo significa rinunciare all’immediatezza e accettare il dubbio. Non sempre ci riesco. Ma ci provo. E in un mondo in cui tutti sembrano avere certezze granitiche, provare a pensare con la propria testa è già una piccola rivoluzione.

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