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Attenzione a voler spingere il piccolo risparmio verso il private equity

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di MATTEO CORSINI

Come è (arci)noto, in Italia (e, anche se in misura non omogenea, nell’intera Europa) la quotazione in Borsa da parte delle aziende private non è mai stata il canale preferito per raccogliere capitali, men che meno la forma di investimento che andasse per la maggiore tra i risparmiatori.

Dal lato delle imprese, il finanziamento bancario è di gran lunga stato prevalente, mentre in anni più recenti il private equity è preferito al mercato regolamentato, che comporta oneri di compliance e di disclosure significativi, soprattutto per le PMI.

Dal lato dei risparmiatori sono stati probabilmente determinanti un misto di ignoranza finanziaria, una strana avversione al rischio in un contesto in cui, peraltro, vengono spesi miliardi in scommesse di vario genere, nonché la spinta ad acquistare titoli di Stato soggetti a una fiscalità di favore rispetto ai titoli di emittenti privati. La normativa, tra l’altro, a partire dalla costituzione, ha avuto la pretesa, non sempre efficace, di proteggere i risparmiatori come se fossero tutti indistintamente soggetti deboli e incapaci di intendere e di volere, di fatto non favorendo l’investimento in capitale di rischio.

Da tempo sono in diversi a lamentare il fatto che l’ingente risparmio degli italiani sia lasciato per lo più sui conti correnti o sia destinato a investimenti obbligazionari, anche all’estero, non andando quindi a finanziare la crescita delle PMI. Di qui le proposte per incanalare una parte del risparmio nel capitale azionario delle piccole imprese. Iniziative contro cui non ci sarebbe nulla da obiettare, purché fosse chiaro che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Nel senso che esistono sempre dei trade-off in termini di rischio, sia esso azionario, di credito e/o di liquidità.

Per esempio, il professor Paolo Gualtieri ritiene “potenzialmente efficace facilitare, eliminando i vincoli normativi, l’investimento nei fondi di private market da parte degli investitori individuali, anche piccoli risparmiatori, e ampliare le possibilità d’investimento in società non quotate da parte dei fondi comuni generalisti. Questo allargamento del novero di soggetti che possono sottoscrivere fondi di private equity e venture capital e delle tipologie di fondi comuni che possono investire in società non quotate contribuirebbe a modificare la struttura dell’offerta dei servizi finanziari di allocazione del risparmio agli investimenti produttivi. Infine se queste riforme fossero accompagnate dall’eliminazione della tassazione sui capital gain per gli investimenti di piccola e media taglia fatti dai risparmiatori nel capitale di imprese non quotate, Pmi, attraverso fondi, il risparmio privato affluirebbe copioso e stabile come avvenuto in alcuni casi documentati in letteratura”.

Sono favorevole alla massima libertà contrattuale e alla minor presenza di vincoli normativi, ma deve essere chiaro che se si vuole avvicinare il piccolo risparmiatore, trattato (almeno formalmente) come una specie protetta a livello normativo, a strumenti che non possono offrire garanzie sul capitale investito, men che meno che si adattano a essere liquidabili quotidianamente, mediante veicoli che, invece, hanno liquidabilità giornaliera come i fondi comuni aperti, in fasi di mercato “difficili” potrebbero esserci amare sorprese. Importante sarebbe non chiamare in causa i pagatori di tasse, in quei casi.

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