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Abbasso la redistribuzione: è più inefficiente oppure più immorale?

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di CRISTIAN MERLO

Qualche giorno fa, nel mentre mi accingevo a tradurre l’ennesimo pezzo di un capitolo di “The Economics and Ethics of Private Property – Studies in Political Economy and Philosophy del filosofo libertario Hans Hermann Hoppe,  mi sono imbattuto in un passaggio che, più degli altri, ha destato il mio interesse, stimolandomi delle riflessioni ulteriori.

Sostiene infatti Hoppe:Vorrei discutere ora di  quattro specifici fattori e spiegare la loro funzione corruttiva per l’opinione pubblica. Si configurano tutti come alterazioni nella struttura organizzativa dello Stato. Il primo elemento è l’adeguamento strutturale del potere centrale sovrano, il quale si è evoluto da uno Stato militare o di polizia ad uno Stato redistributore. (Il prototipo di tale cambiamento organizzativo è il paradigma, spesso emulato, della Prussia di Bismarck). In luogo di una struttura di governo che è caratterizzata da una classe dirigente di dimensioni contenute, la quale utilizza le risorse, di cui si è appropriata per via dello sfruttamento parassitario, quasi esclusivamente per il puro consumo dell’apparato di comando, ovvero per il mantenimento del suo apparato militare e delle forze di polizia, gli Stati, oggigiorno, sono sempre più impegnati in una politica di acquisizione attiva del consenso, tra le persone che operano al di fuori dell’apparato governativo medesimo. In forza di un sistema di trasferimenti, di concessioni, e di privilegi a predeterminate clientele, e attraverso la produzione statale e la provvisione di certi beni e servizi “pubblici” (come, per esempio, l’istruzione), la popolazione è stata resa sempre più dipendente dal consolidamento e dalla perpetuazione del potere statale. Le persone al di fuori dell’apparato governativo, sempre più, riscontrano un interesse finanziario tangibile nella sua esistenza e potrebbero subire un pregiudizio, per lo meno nel breve periodo e in alcuni ambiti della loro esistenza, qualora lo Stato dovesse perdere potere. È naturale, questa dipendenza tende a ridurre la resistenza e ad aumentare il sostegno. Lo sfruttamento può ancora sembrare riprovevole, ma lo si avverte in minor misura se, in conclusione, succede che uno possa anche diventare beneficiario, per certi rispetti, di tali azioni”.

Un passaggio, a mio modo di vedere, illuminante. Perché, in esso, Hoppe squarcia tutte le ipocrisie, le falsità e le mistificazioni ideologiche con le quali si cerca di legittimare, da decenni ormai,  il legame, sempre più innaturale  e spurio, che avvince i cittadini allo Stato.

Ma, innanzitutto, cosa veicola, al cittadino comune, il termine “redistribuzione”? Cosa pensa l’uomo della strada quando, ogni due per tre, sente il politico di turno, in tv, affermare candidamente che le tasse, tra le altre cose, sono necessarie per assicurare le imprescindibili “finalità redistributive”?

Il fenomeno redistributivo, nella sua accezione più essenziale, postulerebbe un passaggio di ricchezza dal ricco al povero, un’allocazione compensativa di risorse, attuata attraverso la tassazione generale e la regolamentazione coattiva, tra chi possiede di più e chi possiede meno o molto meno. Una funzione, insomma, che, in conformità alla visione ortodossa delle cose, dovrebbe essere delegata allo Stato, essendo troppo grandi e troppo importanti gli interessi e i diritti in gioco, per poterli lasciare in balia delle libere dinamiche contrattuali e del naturale affermarsi delle regole della domanda e dell’offerta.

Quali sarebbero questi interessi? In primo luogo, il perseguimento di una ripartizione più equa delle risorse. In secondo luogo, una distribuzione delle ricchezze  meno sbilanciata rispetto agli assetti e agli equilibri che si verrebbero altrimenti a determinare in una società capitalistica, non emendata da qualche indispensabile correttivo. Solo così, ci viene continuamente ricordato dai sacerdoti e dagli officianti della invincibile  liturgia laica dello Stato redistributore, può essere utilmente perseguita la tanto agognata “giustizia sociale”. E come si realizza tutto ciò? Elementare: ricorrendo ad un’imposizione fiscale fortemente progressiva, il cui grado di pervasività è direttamente proporzionale alla sua efficacia nel colpire ed occultarsi; facendo leva su una spesa pubblica in servizi sociali alquanto pretestuosa, in virtù della quale il populismo de­magogico farebbe ricadere sulla comunità benefici di cui usufruirebbero più i poveri che i ricchi.

Ma, se ci resta ancora una pur residuale capacità di volgere lo sguardo oltre la cortina di fumo eretta dall’ utilizzo frenetico dei “turiboli di Stato”, ovvero se riusciamo ancora a fare appello ad un minimo di lucidità e ad un pizzico di buon senso, che per qualche strana ragione  non siano stati fagocitati dall’onda lunga del pensiero unico, alla cui fonte lo Stato paternalista ambisce che tutti ci si abbeveri, potremo dimostrare che le cose non stanno propriamente così.

Avvalendosi di strumenti teorici rigorosi e di rilievi empirici difficilmente confutabili, non diventa poi così impossibile appurare che la professione di fede, salmodiata da ogni buon statalista che si rispetti, in base alla quale le politiche redistributive costituirebbero un imprescindibile elemento di raccordo per la tenuta dei legami sociali, quando non la chiave di volta per conseguire la “giustizia sociale”, nasconderebbe in realtà ben altro.  Proveremo, pertanto, a formulare una serie di riserve al concetto sociologico ed economico di “redistribuzione”.

1)      Non esiste alcuna “giustizia redistributiva”

La prima riserva può essere espressa circa il carattere stesso di “giustizia sociale”; un costrutto che,  se depurato dai suoi aspetti più spiccatamente demagogici e più palesemente retorici, non può che rivelarsi per quello che effettivamente è: una finzione  giuridica e un’assunzione filosofica senza senso.

Proprio perché tale costrutto si pone come l’espressione più diretta ed immediata di una volontà fortemente illiberale e liberticida, tesa a soffocare e a conculcare il primato dell’individualità libera ed autonoma, in nome di quella <<propensione all´ipostatizzazione, cioè, ad ascrivere sostanza o un´esistenza reale a dei concetti o costrutti mentali>>, così ben descritta da Ludwig von Mises.

Concetti come “stato”, “nazione”, “classe”, “comunità”, “società” rischiano di perdere qualsiasi significato, allorché si tende a negare e a rifiutare la consistenza del valore originario che li permea e che infonde loro il soffio vitale della esistenza: l’individualità e le volontà dei singoli individui di associarsi, cooperare, collaborare in vista del raggiungimento di obiettivi personali e comuni.

Con ciò non si vuole certo rinnegare la realtà “primordiale” della socialità o della necessità di un’organizzazione sociale, ma si rigetta totalmente l’ottica intrisa di “collettivismo socialistico”, o la logica eminentemente olistica per le quali l’uomo si configurerebbe o come una mera cellula di un sofisticato organismo sociale dal quale è emanato e al quale, in via del tutto automatica, deve tendere, o come la parte di un tutto che lo antecede e lo trascende.

Allo stesso modo, il concetto di “giustizia sociale” è una pura contraddizione in termini: un tentativo, piuttosto malcelato, di trasporre dei concetti neutri ed impalpabili nel mondo del diritto, eliminando però al contempo i presupposti logici ed ontologici che animano, come sempre, i rapporti e le relazioni di quel mondo. Eppure, è proprio nella sua ambiguità e nella sua straordinaria, ruffiana evanescenza che risiede il segreto dell’irresistibile fascinazione dell’idea, veicolata dalla sommatoria ad alto valore aggiunto di due accezioni di per sé vincenti. Secondo il filosofo liberale Anthony de Jasay <<… è proprio in questo aspetto che risiede l’immenso potere dell’espressione “giustizia sociale”. Nessuno sa cosa significhi esattamente e pertanto è difficile opporvisi. Può significare una enorme varietà di concetti e quindi è facile farsi sedurre da uno di essi. Infine, ma non meno importante, i due termini “giustizia” e “sociale” sono carichi di implicazioni, principalmente positive. Messi insieme, rappresentano una combinazione imbattibile, la cui disapprovazione equivale in pratica ad un’ammissione di perversione morale>>[1].

Insomma, il concetto di “giustizia sociale” è figlio di una rappresentazione della realtà tanto erronea almeno quanto pericolosa. <<Erronea perché presume acriticamente che, se certi concetti sono di uso corrente, devono anche esistere in concreto quelle date cose che essi designano. Pericolosa perché l’aver postulato l’esistenza di collectiva indipendenti e autonomi dagli individui- collectiva come, per esempio, la razza eletta o la classe destinata a redimere l’intera umanità- è all’origine di atrocità indicibili>>[2].

2)      La redistribuzione disconosce il funzionamento di un’economia di libero scambio

Il concetto di politica redistributiva sembra disconoscere la natura e l’essenza della funzionalità dei meccanismi dell’economia di scambio: quello straordinario e formidabile mezzo di cooperazione sociale, mediante il quale gli individui decidono, in maniera consenziente e volontaria, di rendersi reciprocamente beni e servizi, dietro compenso liberamente stabilito, con l’intendimento precipuo di modificare, migliorandola, la propria condizione economica di partenza. Obiettivo dello scambio è, per l’appunto, quello di far fronte ai bisogni nuovi ed emergenti, dei singoli contraenti, ricorrendo ad un processo cooperativo, a somma positiva, suscettibile 1) di promuovere la scoperta e la realizzazione di nuovi modi per soddisfare le aspirazioni proprie ed altrui; 2) di generare valore, psicologico ancor prima che materiale, nella vita di tutti coloro che partecipano alla transazione. Così facendo, gli individui interagenti si creano occasioni per dialogare, per cooperare e per competere (cum-petere, cercare insieme) affinché ognuno, spinto dalla personale ricerca della propria felicità e del proprio benessere, sia in grado di apportare utilità all’altro. Prende così forma quel gioco, caratterizzato da equilibri delicati e virtuose  armonie, che, nell’ambito della Grande Società,  “assicura che si collabori alla realizzazione degli scopi degli altri, senza condividerli o senza neppure esserne a conoscenza, solamente per poter raggiungere i propri fini”[3].

Ma le politiche redistributive manomettono tutto ciò: distruggono i meccanismi su cui si regge lo scambio, ne lordano la natura, ne mortificano la logica.

A Pietro e Paolo, individui liberi e responsabili che decidono di scambiarsi, con reciproca utilità, beni e servizi, si sostituisce ora un Redistributore (politico al potere) che blandisce Paolo – sempre che questi faccia parte di un gruppo sociale capace di garantirgli suffragi – con la promessa che così facendo potrà assicurargli le stesse utilità, senza che neppure debba impegnarsi nell’attività di scambio: potendo diventare facile destinatario delle risorse coattivamente estorte a  Pietro.

Oppure, un altro aspirante Redistributore (politico che mira a posizioni di potere) potrà utilizzare il grimaldello redistributivo per convincere Pietro che, qualora lo votasse, sarà invece lui il beneficiario netto di una differente politica di redistribuzione, che lo possa ricompensare delle perdite dapprima subite.

Cosa se ne evince da tutto ciò? Che la redistribuzione è uno strumento perverso e machiavellico per sovvenzionare una sequela inarrestabile di privilegi, capaci di garantire alla casta di parassiti che li fornisce la sicurezza di restare al potere, e agli aspiranti parassiti che li promuovono l’opportunità per andarci.

D’altra parte, quando viene compromessa la tenuta di un contesto in cui a farla da padrone sono la responsabilità individuale, la libertà di scelta, la possibilità di perseguire liberamente e senza costrizione i propri fini, la predeterminazione dell’oggetto dedotto nell’obbligazione, nonché la simmetria relazionale, passibile di “enforcement”, che caratterizza la posizione delle parti coinvolte nel processo cooperativo, non possiamo che attenderci conseguenze inevitabili e viziose. Proprio perché, investire risorse per ingraziarsi il favore del “Principe”, attendersi da lui graziose concessioni, o finanche credere passivamente nello Stato, non solo significa ledere il processo di emersione di soluzioni nuove  ed innovative – nuovi prodotti, nuove tecniche e tecnologie produttive, nuove controparti, nuove modalità organizzative, nuovi schemi negoziali, nuove declinazioni contrattuali, nuove e migliorate opportunità nell’allocazione delle risorse–, che avrebbero potuto soddisfare necessità attuali e bisogni emergenti.

Ma significa anche, in stretta correlazione e come causa diretta di quanto sopra, distruggere gli incentivi e l’attitudine morale a sviluppare quella indubbia <<capacità creativa che… permette [ad ogni essere umano] di apprezzare e scoprire  le opportunità di “guadagno” che sorgono intorno a lui… [e] serve proprio per creare e scoprire nuovi fini e nuovi  mezzi>>[4]: una caratteristica che si estrinseca nella naturale propensione di ognuno ad inventarsi dinamicamente nuove strade, nel rispetto dei corrispettivi diritti di proprietà sui frutti dell’altrui capacità imprenditoriale, in vista della realizzazione dei propri specifici desideri in ambito spirituale, affettivo, estetico e materiale. Questa straordinaria attitudine naturale, in forza della mobilitazione delle proprie conoscenze e delle proprie risorse, della loro messa a profitto e del loro scambio produttivo, permette pertanto che ognuno possa riuscire a creare valore, per sé e per gli altri, ricavandone così importanti soddisfazioni, e veicolando, per giunta, un progressivo processo di appagamento basato sulla realizzazione, meritata, del proprio potenziale.

3)      La redistribuzione rigetta l’intrinseca moralità della cooperazione sociale

La terza ragione che milita a sfavore della concezione delle politiche redistributive sottintende sostanziali motivazioni di carattere etico e morale.

Difatti, l’invocazione indiscriminata ed automatica del trasferimento redistributivo sarebbe improntata ad un relativismo giustificazionista senza pari, oltre che ad un fatalismo deresponsabilizzante ed inibente: giacché essa tende a rigettare l’idea, naturale e comprovata dal corso della storia economica, che  – a prescindere da talune eccezioni che confermano la regola- la fortuna economica individuale è alla lunga determinata dalla tavola di valori e dalla funzione propositiva e propulsiva di elementi ideali, culturali ed etici che animano e vivificano l’esistenza degli stessi individui.

La ricchezza, l’evoluzione, il progresso non possono mai discendere dall’alto per grazia divina o dipendere esclusivamente da fattori esterni, fisici, indipendenti dalla volontà umana. Parimenti, la capacità di fare profitto e l’abilità nel prodigarsi per la soddisfazione ottimale dei desideri e dei bisogni avvertiti dagli altri consociati non possono essere qualificate come qualità o talenti, che possono essere o fortunatamente posseduti o fatalmente mancanti,  disgiunti da una più complessa ed intricata trama di relazioni valoriali, etiche, filosofiche.  Insomma, un ruolo primario, per non dire fondamentale, nel successo o nell’insuccesso dell’azione economica lo detengono elementi quali il senso di responsabilità, il rispetto di sé e degli altri, l’indipendenza, la libertà di pensiero e di intrapresa, l’autonomia organizzativa, la progettualità creatrice, l’industriosità, la voglia di risparmiare, il desiderio di darsi da fare, vissuto ed inteso come un atto di dignità esistenziale e come contributo allo sviluppo armonico dei rapporti interindividuali. E ogniqualvolta si tenda, attraverso l’introduzione di certe politiche,  a disconoscere il ruolo funzionale e propositivo di quei fattori ideali e di quei principi orientativi, non potrà che essere favorito il suscitarsi, in seno al contesto sociale investito, di sentimenti contrapposti e negativi: sfiducia nei propri mezzi e nelle proprie capacità, disillusione, rassegnazione apatica, insicurezza, deresponsabilizzazione, propensione alla ricerca della rendita parassitaria, promozione di condotte di carattere lobbistico e parassitario.

In breve, la natura e la logica della redistribuzione annientano lo spirito profondo delle relazioni  sociali di cooperazione e collaborazione: del resto, prendendo a prestito le belle parole di Tom G. Palmer, <<il capitalismo è un sistema di valori culturali, spirituali ed etici. Come hanno efficacemente dimostrato gli economisti David Schwab e Elinor Ostrom, nell’ambito del loro studio seminale sulla teoria dei giochi, relativamente al ruolo esercitato dalle norme e dalle regole nel mantenere economie aperte, il libero mercato poggia saldamente su norme che limitano fortemente il furto e che sono orientate al “rafforzamento della fiducia”.

Lungi dall’essere un’arena immorale per il conflitto di interessi, come spesso il sistema capitalistico viene dipinto dai detrattori che cercano di minarne o distruggerne l’immagine, l’interazione capitalistica è fortemente innervata da norme e regole etiche. In effetti, il capitalismo è fondato su un rigetto aprioristico della logica di predazione e di rapina, le modalità attraverso le quali era stata acquisita la maggior parte della ricchezza accumulata dai possidenti, in seno ad altri sistemi economici e politici. (In realtà, in molti Paesi ancor oggi, e per lungo tempo nel corso della storia umana, è stato ampiamente realizzato che coloro che sono ricchi lo sono perché hanno preso agli altri, e soprattutto perché hanno fatto ricorso alla forza organizzata: nei termini attuali, lo Stato. Queste elites parassitarie utilizzano questa forza per ottenere monopoli e per confiscare il prodotto  degli sforzi altrui attraverso la tassazione. Si alimentano a spesa delle casse pubbliche ed estraggono benefici dall’imposizione di monopoli e dalle restrizioni della concorrenza. È solamente in costanza di atti di capitalismo che la gente diventa ricca senza necessariamente ricorrere a condotte criminali>>[5].

4)      La redistribuzione riduce  la solidarietà ad un atto obbligatorio e, quindi, immorale per definizione

La delega automatica conferita allo Stato e agli apparati pubblici per l’assolvimento dei programmi assistenziali, ad accesso universale gratuito o semi-gratuito, ha comportato, a partire dai primi decenni del XX secolo, la totale dismissione dei programmi di assistenza privata, che erano da sempre esistiti ed avevano sempre operato con estremo successo, senza produrre le immani disfunzioni generate dal monopolio statale della “redistribuzione assistita”.

I modelli assistenziali privati, siano essi di matrice comunitaria, religiosa, filantropica od altro, sono stati nel tempo quasi totalmente soppiantati dalle logiche di gestione statalista ed interventista. Le quali  non si sono certo distinte per aver risolto le problematiche per cui, demagogicamente, esse si arrogano la propria ingombrante ingerenza.

Se per un verso, pertanto, possiamo senz’altro sostenere che <<la ricerca empirica rivela che i piani di trasferimento di risorse delle maggiori democrazie d’Occidente sono privi di metodo e caotici. Visto come creazione della ideologia redistribuzionista, il moderno welfare state non è difendibile in relazione ad alcun coerente disegno di principi o di obiettivi. Esso non ha alleviato in modo significativo la povertà, ma piuttosto l’ha sostanzialmente istituzionalizzata>>[6]. Dall’altro, non è men vero che l’istituzionalizzazione dello status di povertà, che fa leva sulla figura del povero, assistito, mantenuto e vezzeggiato come un parassita della società in servizio permanente effettivo, è strumentale al mantenimento dei carrozzoni statali, elefantiaci e farraginosi, dediti alla promozione di una solidarietà alquanto interessata e a quell’esercito di “professionisti” dell’assistenza pubblica che non trovano altre giustificazioni plausibili se non … nel proprio istinto di autoconservazione.

Lo scopo effettivo dell’assistenzialismo e della redistribuzione, quindi, non è affatto la risoluzione dei problemi ingenerati dalla povertà, bensì la loro istituzionalizzazione: fintanto che vi saranno poveri da sostenere ed aiutare, i parassiti che campano e vivono alle spalle dell’industria dell’assistenza – siano essi politici, burocrati, sindacalisti, e dissipatori di ogni risma- possono dormire tra due guanciali. E i poveri, statevene pur certi, non mancheranno mai. Il sistema ha dannatamente bisogno di “poveri”. Ecco perché diventa particolarmente lucroso e redditizio il business della solidarietà imposta per legge.

Due esempi su tutti per comprovare quanto si va dicendo?  Affidiamoci ai numeri che, si sa, al netto delle interpretazioni di parte, non mentono. Una fotografia alquanto rappresentativa dell’efficienza e degli intendimenti caritatevoli e morali del nostro sistema di Welfare, ce la fornisce l’economista Antonio Martino, che in una analisi, ormai classica, mostra dei dati che, seppur sovra semplificati, non lasciano spazio a controdeduzioni di alcun tipo: <<… nel 1990 abbiamo speso ben 235.312 miliardi in “prestazioni sociali”; se quei soldi fossero andati al 20% più povero della popolazione, avrebbero garantito ad ognuno degli 11.400.000 italiani “poveri” un reddito annuo aggiuntivo di 20.670.0000 lire, cioè ben 82.680.000 lire per ogni famiglia di quattro persone. La povertà sarebbe scomparsa[7]>>. E non si pensi che nel frattempo, in questi ultimi venti anni, la situazione sia migliorata. Anzi…

Così come, è ancora lo stesso Martino, a fornirci un “simpatico” e paradigmatico aneddoto, questa volta riferito alla gestione degli asili nido presso la municipalità di Roma. La quale, negli anni ’80, spendeva circa 77 miliardi di lire all’anno per gestire strutture in cui si accoglievano 4.000 bambini; se il Municipio della Capitale, invece di gestire in proprio il servizio, avesse pagato le relative rette presso i più esclusivi asili della città, avrebbe risparmiato almeno 15 milioni di lire all’anno per ogni ospite, cioè a dire non avrebbe gettato al vento una cifra pari a 61 miliardi di lire annui.[8] Ma, per l’appunto, non sarà mai detto a sufficienza, quello che agli occhi di tutti i cittadini produttivi pare uno spreco, la galassia variopinta dei parassiti sociali che gravita attorno all’industria dell’assistenza pubblica lo chiama “investimento”. Quei dati sono risalenti agli anni ’80, è vero: ma anche in tal caso, sarebbe vano, se non addirittura folle, confidare in qualcosa di diverso.

La verità, ancora una volta, l’ha condensata splendidamente il Professor Ricossa, il quale, con l’ineguagliabile briosità del suo nitore espositivo, così ha descritto la tipologia di solidarietà che oggi predomina e che così tanto condiziona le nostre vite: <<parlo della solidarietà obbligatoria per legge, imposta da politici demagoghi, pagata da contribuenti inermi, goduta massimamente da burocrati pubblici, inventata nella forma moderna da Bismarck, il cui ideale era trasformare la Prussia in una unica, immensa caserma, trattando i civili come i militari. La morale implica la libertà. Il valore morale della solidarietà obbligatoria, non libera, è nullo. Il valore economico, inteso come spesa, è altissimo. Il presupposto teorico è che i ricchi paghino per i poveri. La conseguenza pratica è che, più spesso di quanto non si creda, i poveri pagano per i ricchi>>[9].

5)      La redistribuzione crea inefficienza e azzardo morale

Ma per appurare in via immediata la paradossalità, e financo l’illogicità, dell’adozione di simili politiche, basta fare appello ad una ricognizione che si avvale di semplici strumenti offerti dalla logica microeconomica e prodursi in una valutazione, diciamo così, di semplice buon senso.

Se si avesse l’onestà intellettuale di voler aprire gli occhi, e di voler guardare le cose per quelle che sono,  non si potrebbe che osservare come la sinergia operativa tra politiche redistributive e politiche fiscali, tra espansione degenerativa della spesa pubblica ed incremento esponenziale della regolamentazione coattiva, abbia ingenerato distorsioni e recato sventure di ogni tipo, riverberandosi però in particolar modo sulla propensione a generare e produrre ricchezza.

Qualche esempio, per farci intendere? Si pensi, in primo luogo, alla distrazione di risorse preziose, drenate dai settori più produttivi, per essere convogliate verso destinazioni meno redditizie e verso utilizzi meno efficienti, ma che si configurano senz’altro come soluzioni politicamente più paganti e materialmente ben più profittevoli, per gli attori coinvolti nel processo di scambio politico. In secondo luogo, in forza della immissione, nel contesto operativo, di incentivi perversi ed a fronte della promozione di azioni di carattere lobbistico e parassitario,  gli individui vengono orientati verso condotte moralmente irresponsabili (proliferazione del “moral hazard”) ed economicamente disproduttive: è pertanto logico attendersi la progressiva dismissione di qualsi­asi incentivo al miglioramento, all’innovazione e alla riabilitazione presso i beneficiari della redistribuzione politica, a prescindere dalla forma in cui questa si concretizzi. Ed ancora, come ovvia conseguenza dell’adozione di tali misure, non risulterà certo strano il dover constatare una regolarità immancabile ed invariabile: che consiste nella graduale disincentivazione dei membri più produttivi e talentuosi della società a creare, sviluppare ed intraprendere, nella misura in cui possano anche solo avvertire che i frutti generati dalla loro industriosità rischierebbero poi di essere immutabilmente taglieggiati tanto da inique politiche fiscali, che da assurde volontà regolamentatorie.

Si già è detto che queste nostre riflessioni hanno preso il la da un passaggio, alquanto illuminante, del trattato di Hans Hermann Hoppe: e allora, chi meglio di lui potrebbe ora fornirci le parole per chiudere al meglio queste pagine, condensando in una sintesi mirabile quanto si è cercato di argomentare?
Se da una parte, infatti, <<ogni redistribuzione, qualunque sia il criterio sul quale essa si fonda, implica che si prende ai [legittimi] possessori e [legittimi] produttori originari (coloro che “hanno”qualcosa) per dare ai non- possessori e non- produttori (coloro che “non hanno” la cosa in questione)>>,[10] dall’altra, come detto, essa sovverte i principi ed i canoni sottesi al funzionamento dei processi di cooperazione sociale e delle inerenti relazioni di scambio libero e volontario. È indubbio, allora, che una alterazione di un simile complesso di regole non possa che comportare, ineluttabilmente, che vi sia <<meno appropriazione originaria di risorse la cui scarsità è nota, meno produzione di nuovi beni, meno sfruttamento dei beni esistenti, meno contratti e meno commerci reciprocamente vantaggiosi. E questo conduce naturalmente verso un più basso tenore di vita in termini di beni di mercato e di servizi>>.[11]

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NOTE

[1] Anthony de Jasay , I principi della giustizia sociale, http://brunoleonimedia.servingfreedom.net/OP/15_deJasay.pdf, p. 1

[2] Dario Antiseri, La scuola austriaca, in “Fondazione Liberal”, num. 5, aprile- maggio 2001.

[3] Friedrich A. von Hayek, Legge, legislazione e libertà, Milano, il Saggiatore, 2000, p. 317.

[4] Jesus Huerta de Soto, Il socialismo è un errore intellettuale, http://www.movimentolibertario.com/2011/07/13/socialismo-e-errore-intellettuale.

[5] Tom G. Palmer , “Introduction: The Morality of Capitalism”, The Morality of Capitalism, 2011.

[6] John Gray, nell’introduzione a  B. de Jouvenel, L’etica della redistribuzione, Macerata, Liberilibri, 1992, p. XXIV.

[7] A. Martino, nell’introduzione a  B. de Jouvenel, L’etica della redistribuzione, pp. XVIII- XIX

[8] Antonio Martino,  “The Welfare State: Lessons from Italy”, contenuto in Promises, Performance, and Prospects, – Essays on Political Economy, 1980- 1998,Indianapolis, Liberty Fund, 2005, p. 99.

[9] Sergio Ricossa, I pericoli della solidarietà, Milano, Rizzoli 1993, p. 23.

[10] Hans – Hermann Hoppe, “Abbasso la democrazia!”, scritto contenuto in Abbasso la democrazia: l’etica libertaria e la crisi dello stato, Treviglio,Leonardo Facco Editore, 2000, p. 51.

[11] Hans – Hermann Hoppe,  “La giustizia dell’efficienza economica”, saggio contenuto in Abbasso la democrazia: l’etica libertaria e la crisi dello stato, p.28.

 

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