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Quella voglia di “governo unico mondiale”, che non potrà realizzarsi

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di PAOLO L. BERNARDINI

Di solito, il Governo Unico Mondiale affiora, come incubo da distruggere, nei film di fantascienza o di 007, e, benché sia un sogno o un complotto al primo legato, che nasce dagli Stati e da uomini di Stato, o da vili intellettuali pennivendoli al loro servizio (o che aspirano alle loro posizioni) viene di solito abilmente falsificato, e rovesciato, in sogno di “privati”, capi di potentissime corporazioni, mostri immorali, personaggi da eliminare con botti clamorosi, all’interno delle loro capsule spaziali, dei loro sommergibili atomici, dei loro veicoli disumani e mostruosi. Paradossalmente, è un agente segreto di Stato, 007, a porre di solito clamorosamente fine a questi sogni di dominio. Il contrario di quello che accade davvero: è di solito il singolo, il privato, che con i suoi deboli mezzi, le sue idee (ma le idee sono “bullet proof”, ricorda V nello splendido film) cerca di porre fine al sogno di dominio di uomini che agiscono solo ed esclusivamente attraverso Stati e mascherano per bene collettivo gli esiti sperati della loro spaventosa nevrosi personale.

Ogni tanto certo emerge nelle farneticazioni di politici “una moneta unica mondiale” (Tremonti), o un “singolo governo mondiale” (Benedetto XVI), ma per fortuna il mondo si frantuma in stati sempre più piccoli e meno inclini ad espandersi dei loro bastardi fratelli maggiori, fomite di guerre distruttive e di potenziali catastrofi nucleari fino all’altro ieri. Il mondo si governerebbe perfettamente da solo se non vi fosse nessuno stato e nessun governo. Le centinaia di milioni di morti di Stato dalla rivoluzione giacobina ad oggi non sono evidentemente riusciti a convincere del tutto gli uomini e le donne del potenziale omicida di ogni stato, o di quasi ogni stato, certamente di quelli di modalità e ispirazioni giacobine. E c’è chi ancora farnetica di un singolo superstato, che agisca per il bene dell’umanità. Ci si domanda quanti milioni o miliardi di morti saranno ancora necessari, perché si cambi idea (posto che si sia ancora vivi).

Ora la questione del governo mondiale può porsi in due modi: o come unico Stato mondiale, la “civitas Diaboli” realizzata nell’impossibilità oggettiva di realizzare quaggiù la “civitas Dei”, che appartiene per definizione al regno ultraterreno. E in questo caso siamo nel solco di utopie recenti, nel senso che perfino ai tempi di Socrate si inneggiava alla perfezione del governo delle polis greche ma si accettava che ci fossero i miserabili barbari governati da despoti brutali (forse) ad Oriente, e diversi in tutto e per tutto, pronti magari ad esser resi simmenthal umana da trecento prodi spartani nelle bocche delle Termopili: purché stessero a casa loro. Certamente, la nascita nella prima età moderna e nel tardo medioevo (si veda al proposito lo splendido libro di Merio Scattola Das Naturrecht vor dem Naturrecht, del 1999, che l’amico e chiarissimo collega Scattola dovrebbe a beneficio dei non parlanti tedesco tradurre), del diritto internazionale sulla base del diritto naturale e di quel poco che c’è – non totalitario ma ricettivo e rispettoso di altre tradizioni “barbare”, sebbene fosse romano-imperiale! – di “ius gentium” nella tradizione romanistica, ha fatto sì che si venissero concependo teorie di “governo mondiale” assai più soft di quelle otto-novecentesche (ma ancora la dittatura del popolo giacobina non era emersa); tra queste, vale la pena di ricordare il concetto di “Civitas Maxima” di Christian Wolff, poi il tentativo di disciplinamento dei rapporti internazionali nel Settecento, il secolo della “bilancia dei poteri”, da parte di una pletora di giusnaturalisti e giuspositivisti, come de Vattel (svizzero), o federalisti mondiali, ovvero utopisti puri, come l’abate di Saint Pierre (fino a Kant incluso, con il suo progetto di pace perpetua del 1795). Oppure come il sardo filo-napoleonico Azuni: per tutti coloro, il diritto internazionale doveva regolare e regalare la pace al mondo, attraverso il diritto internazionale privato, ad esempio il diritto mercantile, fondamentale (per Azuni, per Luigi Piantanida tra gli altri). Non sarà proprio così.

Lo “stato unico mondiale”, fortunamente irrealizzabile nella pratica, ha dato dunque largo spazio ad idee variabili di “federazione”, o “unione mondiale”, che dia un governo al mondo nel rispetto del governo dei singoli stati, cosa che ovviamente diventa sempre più complicata in virtù di due variabili casuali fondamentali: il moltiplicarsi appunto degli stati, e il moltiplicarsi delle forme di governo. Veritas sive varietas, ed è proprio questa formula magica, propria tra l’altro del pensiero libertario, che serve a tener lontano il mostro dell’unico Stato mondiale ma anche dell’unico governo mondiale in presenza di pluralità di stati.

Fallito dunque il solo stato mondiale, il Leviatano Massimo, ha preso una piega diversa anche il governo mondiale, e l’utopia prima del “Concerto delle Nazioni” ottocentesco, poi della Lega delle Nazioni, e finalmente dell’ONU, tutte forme deteriori di “Civitas Maxima” che avrebbero fatto inorridire quell’ottimista ingenuo di Wolff (proprio per questo fatto oggetto con Leibniz della pungentissima ironia di Voltaire), si presenta nel 2013 in forme differenziate, e caotiche. Da un lato una pletora di organizzazioni mondiali, alcune puramente inutili e veramente nocive, che alimentano a caviale quei funzionari che vorrebbero che tutto il mondo si nutrisse di insetti (come ha già scritto brillantemente Luca Fusari su queste pagine); dall’altro istituzioni di “governo mondiale” che poi si trovano in sublime imbarazzo quando devono agire non dico da governanti, ma da poliziotti del mondo, lasciando drammi immani come eredità sia ai locali sia “al mondo”,la Somalianel 1993, il Rwanda nel 1994, per non parlare della ex-Jugoslavia. O che altrimenti prendono decisioni sorprendentemente liberali: l’UNESCO che pur essendo agenzia ONU accetta, nello spirito della “nazione” e non dello “stato”,la Palestina, mettendo in giuoco i cruciali finanziamenti americani, oltre ovviamente a quelli israeliani. D’altra parte, il nome “United Nations” fu preso perché quello “United States” era già occupato, ma sappiamo molto bene quante nazioni senza stato vi siano al mondo (e quanti stati senza una unica nazione, comela Svizzera, federale, o l’Italia, ottusamente centralista e sempre più tale). Se però i nomi contano, possiamo pensare, come accade, ad agenzie internazionali che accettino nel proprio ambito nazioni senza stato. Mettendo in questo modo in crisi le alleanze e i rapporti tra stati consolidati (o sedicenti tali) stessi.

Dopo queste amplissime premesse, presento dunque un libro, “Governing the World. The History of An Idea” (Penguin Press, 2012, pp. 475) che vale la pena di essere letto da tutti coloro che sono contenti di leggere, alla fine, che “l’idea di governare il mondo è diventato un sogno del passato”. Ma prima di tutto due parole sull’autore. “Liberal” piuttosto che “libertarian”, Mazower è uno dei più brillanti storici contemporaneisti al mondo; inglese, del 1958, Mazower è cattedratico a Columbia, un luogo, come lui stesso ammette, molto congeniale per riflettere sui rapporti tra gli organi di governo del mondo effettivi (gli USA), e gli organi di governo del mondo nominali (l’ONU), qualcosa che va ribadito alla luce della recente affermazione di Obama rispetto ad un eventuale attacco alla Siria, “non ci interessa il parere dell’ONU”. Non interessò neanche quello dell’ONU, o ancora quello pateticamente in ritardo del Parlamento europeo, quando nel 2003 Bush decise di invadere l’Iraq. D’altra parte Hobbes aveva ben ragione nel dire che gli stati si comportano come individui allo stato di natura, dove prevale il più forte. Ovvero, non esisteva allora, ma neanche oggi, un diritto internazionale positivo tale da essere equiparabile ad un diritto vigente in uno Stato. Forse per disgrazia, forse per fortuna. La differenza è che lo Stato non è un’entità naturale come l’individuo, la famiglia, la comunità, per i quali idealmente poteva vigere, in un passato remoto, o anche solo come filosofia morale ideale, un diritto, anzi il diritto di natura. L’individuo tende alla felicità personale, lo Stato alla felicità di alcuni tramite l’infelicità della moltitudine di altri. Non è una costruzione naturale. E questo Hobbes sapeva benissimo. Un grande maestro soprattutto nel mentire a se stesso, nel dover identificare lo stato di natura, e quindi il diritto naturale che lo regola, come qualcosa di negativo, per non dover trarre altre conseguenze dal contrario, verosimile, di tale assurda posizione.

Mark Mazower vive e lavora in una università dove ancora fortissima è la presenza “liberal”, come in tutta la città, del resto, con però singolari momenti critici, dove la sinistra riflette spesso sui suoi eccessi ideologici: da Columbia è venuta (dal giovane Samuel Moyn, autore di un libro sul destino dei “diritti umani” nel mondo parallelo a quello di Mazower sul governo mondiale, e del resto sono amici), la miglior critica al giacobinismo spinoziano di Jonathan Israel (di Princeton, poco lontano), come si esprime, enciclopedicamente, nel “Radical Enlightenment”, che, sostenendo la derivazione della rivoluzione francese dall’Illuminismo, rende un servizio orribile all’Illuminismo, e nobilita l’inqualificabile. D’altra parte però l’altro nume tutelare della sinistra “storica” di Manhattan, Tony Judt, fa qui la sua immancabile comparsa, ma in modo poco congruo: certamente nel suo elogio dell’Europa Judt, scomparso da poco, pensava ad una utopia socialisteggiante dove si fosse tutti in pace e la “sanità fosse gratuita”, ma certamente essa dove è veramente gratuita (come in Danimarca) è pagata da taxpayers più o meno felici di farlo (con una aliquota massima del 56% in un paese ricco e piccolo, per operarmi al cuore dovrebbe esserci Barnard clonato, non accetterei di meno…). “Non esiste un pasto gratis, non esiste un medico gratis…” Mazower non è dunque uno studioso libertario – altrimenti il suo approccio sarebbe stato diverso: quanto costano ai taxpayer le organizzazioni internazionali e quanto rendono, se rendono, e a chi servono, se servono, con risposte ovvie e desolanti – e il suo approccio tradisce forme di fiducia sospettosa e cauta nelle democrazie liberali e welfaristiche. Mazower però è studioso brillante, che sa partire da approcci “periferici” per affrontare la storia soprattutto europea. E sono magistrali i suoi lavori sulla Grecia e sui Balcani, la sua storia della città-simbolo di Salonicco (in italiano “Salonicco, città di fantasmi”, Garzanti, 2007); e la sua prospettiva non troppo rassicurante sulla storia europea novecentesca (“Le ombre dell’Europa”, sempre Garzanti, 2005).

Questo libro, il suo ultimo lavoro, non parte dal Settecento, né dalle origini neoscolastiche del diritto internazionale, né dalle ingenue utopie di Christian Wolff o dell’abate di Saint-Pierre (ma per Saint-Pierre rimando in ultimo al volume di Simona Gregori pubblicato da EUM editori nel 2010), ma non evita Kant, e si sofferma sulle fasi realizzative delle utopie di governo mondiale, il Concerto delle Nazioni, che voleva evitare il ritorno di mostri come Napoleone a minacciare l’Europa, e il mondo, e fino alla Guerra di Crimea vi riuscì; poila Legadelle Nazioni, passando attraverso utopisti più o meno fortunati, Mazzini, cui dedica forse troppo spazio, Wilson, naturalmente, e poi gli artefici dell’ONU. Soffermandosi anche sulle utopie letterarie e di scienziati politici più o meno fortunati, soprattutto nell’Ottocento dei nefasti “profeti di Parigi”, per citare il classico di F. E. Manuel. D’altra parte Saint-Simon, uno dei soggetti del classico di Manuel, è ben presente qui, il padre del concetto di “internazionale”. Mostra bene, Mazower. come si passi da un paradigma di governo mondiale ad uno di “cooperazione internazionale”, mostra bene come scopi di conservatorismo politico siano stati soppiantati da scopi  (ipocriti, spesso) di “umanitarismo internazionale”, con la nascita, e l’implementazione, delle molto ambigue, e talora funeste, “missioni umanitarie”. Porta alla ribalta tantissimi personaggi, alcuni dimenticati, dà il giusto ruolo a Spinelli e perfino a Ventotene. Opere dimenticate, come l’utopia àla Fourierdi Felix Bodin, vengano reimmesse nel discorso storico. Ma “Le Roman d’Avenir” è davvero dello storico Bodin? E perché allora non parlare di Emile Souvestre, che scrisse nel 1846 un romanzo che ebbe molto più successo di quello di Bodin, “Le Monde tel qu’il sera”, dove si descrive un mondo futuro non roseo come quello di Bodin, ma ovviamente in mano a privati corrotti, che condizionano gli stati con folli ricatti e corruzione diffusa. Un distopia dove i figli sono sottratti da piccoli ai genitori, dove esiste una sola nazione mondiale, con capitale a Tahiti (sic), e il mondo ha regioni devastate da terribili e insensate guerre (la Persia, da guerre di religione…).

Di alcuni personaggi Mazower non parla proprio, anche se forse dovrebbe, ad esempio Giuseppe Antonio Borgese, collaboratore nientemeno che di Thomas Mann, utopista pervicace nel suo esilio americano, cultore del mito perverso di una “costituzione del mondo” che egli stesso cercò di stendere, sulla base di nefaste e confuse visioni di un “impero del mondo”, come se l’ultimo impero che era emerso, il III Reich, non avesse portato abbastanza sciagure: “Le parole del futuro – scriveva Borgese — sono Federazione mondiale, che sola può condurre a realtà il miraggio dell’impero mondiale; giustizia e pace, con libertà al servizio della giustizia e della pace; convergenza, anzi unità di etica sapienza e attivo governo politico, nello spirito di una fede religiosa del tutto razionale.” Mazziniano di ferro come Salvemini e gli altri emigrati o esiliati cui s’era associato negli USA, Borgese pensa che in tale “impero mondiale” un ruolo fondamentale, di guida, dovrà essere esercitato proprio dall’Italia (!). Solo per questo avrebbe meritato, tra tanti deliranti e malati di mente citati da Mazower, un posto d’onore.La DeaRagioneal Governo del Mondo conla Capitalea Roma. Che meraviglia! Non è avvenuto, però.

Mazower, se decreta per fortuna la fine del sogno di governo mondiale, relegandolo al limbo delle utopie solo realizzate, per fortuna, parzialmente (ma certe utopie sono sciagurate anche quando si realizzano solo in minima parte), sembra d’altra parte scettico quando parla delle organizzazioni private, dei magnati, ad esempio, che, con in testa Bill Gates, si sono riuniti un bel giorno a Manhattan, e si sono chiesti, cosa possiamo fare per il mondo, visto che va male?, e qualcosa, con il loro patrimonio complessivo (secondo i calcoli di Mazower) di 125 miliardi di dollari, qualcosa avranno pur fatto. D’altra parte, il mondo dei privati non legati a complotti con lo stato, sciolti da trilaterali e incontri alla Letta su sulle montagne, qualcosa per il mondo fa pure. E’ un mondo, ricordiamolo, in cui, anni fa, l’indotto legato alla sola figura di Michael Jordan portava ricavi superiori al GDP dell’intera Giordania, il paese che di Jordan porta il nome, ma solo quello. Il mondo, per fortuna, cambia, è il vero governo mondiale è quello, libero e spontaneo, della globalizzazione, ovvero del mercato. Troppi “governi antichi”, ovvero politici, cercano in realtà di ostacolarlo. Il governo del mondo è l’anarchia felice del libero mercato. Un paradosso, ma vitale. Ma vivo.

Per questo, scorrere le belle, appassionate pagine di Mazower sembra un po’ camminare in un cimitero. Non un cimitero qualsiasi, diciamo Montmartre, o Staglieno, o il Monumentale di Milano, o ancora il Père Lachaise ove riposa, tra gli altri vips, Souvestre sullodato. Vengono ricordate figure per fortuna ora ignote, romanzieri troppo incautamente presi da utopie di governo, che sono riflessioni di drammi personali, di sogni di controllo e dominio. Ma, per rimanere nel mondo della letteratura, parla anche, e all’inizio, di utopie negative, di autori come Tim LaHaye e Pat Robertson, il quale ultimo nel 1991 metteva in guardia contro un nuovo e tirannico ordine mondiale basato sulla “virtù”. Non era la parola-chiave dei giacobini, malamente ereditata e stravolta dal retaggio illuministico? Non volevano forse “terminare la rivoluzione” estendendo il nuovo ordine giacobino, ovvero la tirannia democratica, a tutto il mondo? In parte, ci sono riusciti, con Lenin, Stalin, Mao, e Hitler, e tirannelli minori. Hitler era sappiamo innamorato della ghigliottina, la usò con i ragazzi della Rosa Bianca, si sa.

In conclusione, anche se proliferano libri più o meno seri sul “governo del mondo”, sarei lieto che questo fosse tradotto in italiano e letto. Conduce nei meandri di una storia complessa, che tutto sommato ha avuto una bella fine. Nessun governo mondiale “ufficiale” esiste. Che poi esistano alleanze tra privati e pubblico (nel mondo dei corrotti) per crearlo “ufficiosamente”, o, ovviamente, “segretamente”, non vi sono dubbi. Ma allo stesso esistono privati, singoli, che da Assange a Gates, in un modo o nell’altro, sono più forti e mettono in scacco anche i maggiori tra gli Stati. La lotta tra lo stato e l’individuo continua in tantissime battaglie, di scala, forma, notorietà, risultati diversi. Ma la lotta continua, per fortuna. Vi sono istituzioni che stravolgono il concetto di “proprietà” inventando la finzione, ad esempio, di “patrimonio dell’umanità” (se venissero gli alieni a comprarne un pezzo, di questo patrimonio, solerti funzionari UNESCO gli consegnerebbero le chiavi, allora?), ma allo stesso tempo la stessa UNESCO allegramente ignora i vincoli degli stati e ammette una nazione senza stato tra i suoi membri. Tutto si muove, per fortuna. Il libro di Mazower non è di un giurista o di un politologo, ma di uno storico che sa dare “flesh and blood” anche a quelle che potrebbero apparire le più impersonali tra le istituzioni. Rendendo soprattutto ragione della vera e propria dialettica tra la maggiore di esse, l’ONU, e le grandi potenze, prima dopo e durante la guerra fredda. Ma nulla vieta che gli stati del mondo, quando saranno per fortuna ancora cresciuti in numero, trovino forme associative leggere tra di loro, leggere, trasversali, mutevoli, non legate da nessuna costituzione delirante alla Borgese o alla Mazzini.

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