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Gandhi, non mandela, deve essere da esempio per l’indipendentismo

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La morte di Nelson Mandela è stata accolta da un profluvio universale di deferenti omaggi e più o meno sincere professioni di ammirazione incondizionata che poco aggiungono alla singolare caratura del personaggio.

Forse nessun’altra icona del Ventesimo secolo ha raccolto attorno a sé un simile unanimismo capace di cancellarne i molti punti oscuri della vicenda personale, ovvero, più prosaicamente, le stimmate della persecuzione subita hanno eliminato qualsiasi confronto sulla liceità o l’erroneità delle scelte compiute in nome del rovesciamento di un sistema iniquo e discriminatorio. In questo modo l’epica della grande lotta rivoluzionaria, una volta concluso il proprio percorso con il raggiungimento trionfale del traguardo, ha impedito che si rimettessero in discussione gli esiti poco lusinghieri dell’amministrazione quotidiana del post-apartheid.

Una rimozione che, a ben riflettere, presenta delle analogie con lo svolgimento di altri processi di liberazione siano essi nazionali (come è il caso delle lotte di emancipazione anti-coloniali) o più precipuamente politico-ideologiche (resistenze a dittature o governi autoritari). Il Vietnam e la Cambogia, ad esempio, offrono un plastico esempio di quanto un apparato di valori ampiamente condivisi riesca ad alimentare l’auto convincimento di essere dalla parte del bene anche in presenza dei crimini più efferati. Spenti gli echi della mobilitazione mediatica mondiale, infatti, si consumarono in quelle terre disgraziate degli eccidi di proporzioni spaventosi. Indubbiamente il Sudafrica dell’ “era della pacificazione” non può essere assimilato a due esperienze totalitarie comuniste, ma è inquietante il silenzio ostinato che copre il sostanziale fallimento dell’ambizioso progetto di riscatto nazionale tentato dalla nuova classe dirigente proveniente dai ranghi dell’African National Congress.

Il terribile degrado dell’ordine pubblico in un paese con un tasso di criminalità tra i più alti al mondo, l’emigrazione di un quinto della popolazione bianca, gli assassinii incessanti dei farmers boeri e ancora la contesa spietata tra le varie fazioni interne al partito dominante sono tutti sintomi del divorzio da una realtà propagandata da apologeti o amanti delle fiabe a lieto fine.

Tra i  massimi meriti attribuiti al grande timoniere Mandela il primo posto spetta, per comune accezione, proprio l’essere riuscito a gestire in maniera sapiente ed aliena da pericolosi estremismi il passaggio di consegne dall’élite bianca alla maggioranza arcobaleno. Ma quanto prima ricordato sembra, tuttavia, indicare come il cammino della giovane democrazia australe proceda piuttosto verso l’implosione non rendendo dissimile il destino di questo gigante africano da altre tristi storie di quel continente. Storie fatte di guerriglie senza fine tra gli infiniti spezzoni di quelle società-mosaico, di corruzione endemica, di cleptocrazia imperante, di delitti comuni che mascherano furori etnici o tribali…

Ho fatto riferimento, più sopra, alla parabola storica dell’Indocina decolonizzata, ma un altro angolo di Asia andrebbe ricordato per operare un  raffronto spero non troppo azzardato: l’India. Anche qui abbiamo un colosso inquieto costretto in catene da un potere coloniale ora paternalisticamente conciliante, ora incline a mostrare il sembiante feroce del gendarme. Anche qui un partito, espressione della maggioranza variegata del subcontinente (indù, mussulmani, sikh ecc), e soprattutto un capo indiscusso della lotta di emancipazione. M.K. Gandhi decise di portare avanti questa missione attenendosi rigidamente ai principi della lotta nonviolenta, nonostante che spesso la situazione sfuggisse di mano provocando terribili incidenti.

Oggi l’India, pur tra le contraddizioni enormi al proprio interno, si avvia a divenire una delle massime potenze economiche e geopolitiche del pianeta. Il Sudafrica sembra, viceversa, essersi avviluppato in crescenti difficoltà, nonostante faccia parte del gruppo BRIC come la stessa India.

La nemesi della violenza liberatrice? Forse no, ma incitare ed organizzare omicidi, rapine e sabotaggio, accuse rivolte a Mandela nel processo che gli costò la lunga detenzione,  è cosa ben diversa dall’ammonizione cocciuta ad “amare il proprio nemico” dispensata dal piccolo uomo con il sari. In queste  scelte opposte si condensa tutta la dialettica beffarda di due storie piene di dolore e di speranza. (S.A.)

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