Ricordo i tempi in cui un tale Giuseppe Turani sosteneva che i mali economici dell’Italia erano dovuti al “nanismo aziendale”. Secondo quel signore le piccole e medie aziende erano solo un segnale di arretratezza. Come gran parte dei “giornalisti economici” nostrani non ci ha capito una pippa e c’è voluta la crisi, che ancora stiamo attraversando, per dimostrare che senza la piccola e media impresa la disoccupazione sarebbe stata ben peggiore di quella attuale.
Ieri, inoltre, è arrivato uno studio a ribadire come stanno le cose. E’ stato un 2013 nero per le maggiori imprese operanti in Italia, che hanno visto diminuire i ricavi, i margini e gli occupati. In calo anche gli investimenti, segnano un leggero miglioramento i debiti. E’ il quadro impietoso che emerge dall’analisi dell’Ufficio studi di Mediobanca sui ‘Dati cumulativi’ di 2050 società del manifatturiero e del terziario. Le cifre non includono le attività all’estero, ma solo quelle svolte sul suolo italiano. Le uniche note positive vengono dalle medie imprese, mentre le grandi imprese soffrono di più. In crisi il terziario, vanno meglio le imprese pubbliche sostenute pero’ da quei settori che operano in regime di tariffazione.
Secondo le tabelle di Mediobanca, i ricavi delle 2050 imprese sono diminuiti nel 2013 del 2,7%, con un -3,3% delle vendite in Italia e un -1,5% delle esportazioni. Si tratta del primo calo dopo tre anni positivi, durante i quali si era recuperato il gap indotto dalla crisi del 2009. Rispetto al 2008 le vendite segnano un -2,4%. Le pubbliche segnano un +6,1%, ‘salvate’ dalle tariffe (+8,6% energia e gas, +10,6% servizi pubblici locali, +11,4% trasporti); male la manifattura (-6%). Quanto alle dimensioni le medie segnano +0,9%, i gruppi maggiori -6,3%. Male le vendite in Italia (-8,3%), bene l’export (+12,6%). Positivo il settore alimentare e il made in Italy.
Occupazione: scende dello 0,4% sul 2012 per il totale delle imprese, del 5,1% dal 2008. Nel periodo le medie imprese limitano il calo al 2,1%, invece i gruppi manifatturieri a controllo estero tagliano decisamente: -11,3%, frutto di ridimensionamenti o chiusure di impianti. Il costo del lavoro resta comunque alto, superiore alla produttivita’ per dipendente, anche se dal 2005 e’ cresciuto meno dell’inflazione.
Margini: il margine industriale sul fatturato passa dal 4,5% del 2012 al 4,3%. Per i grandi gruppi e’ negativo (dal -0,3% sale al -1%). In valore assoluto il margine operativo netto scende del 6,5%. Dai livelli del 2007 ci separa un abisso: -42,5%. Male sia il pubblico che il privato, un po’ meglio le medie imprese (-16,6%). Tra i settori salgono i margini di pelli-cuoio (+95,9%), le specialita’ alimentari (+31% bevande, +25,7% conserviero), cartario (+12,3%) e farmaceutico (+4,7%). Nel 2013 gli utili netti dell’aggregato scendono da 15,9 a 13 miliardi di euro.
Quanto agli investimenti, dal 2012 c’e’ da registrare una diminuzione di 4,5 miliardi di euro, di 14,4 miliardi dal 2004 (-40,6%). Le pubbliche li hanno diminuiti del 53,8%, il terziario del 62,9%. Di conseguenza aumenta l’eta’ media degli impianti in uso, era di 11,8 anni nel 2004, e’ di 18,8 anni nel 2013.
Indebitamento: lieve miglioramento della struttura finanziaria nel 2013 (i debiti finanziari sul capitale netto scendono dal 93,1% all’89,7%), ma il livello dell’indebitamento rimane alto. Da notare il minor ricorso all’indebitamento bancario (33 miliardi di euro in meno dal 2009 al 2013). Il peso sui mezzi di terzi e’ sceso dal 40,4% al 30,9%, compensato dai prestiti obbligazionari (saliti dal 18,3% al 27,5%).
Nel complesso il sistema produttivo appare in equilibrio bancario, con un 2013 chiuso con una lieve ‘distruzione’ di ricchezza (-0,1% del capitale investito). I grandi gruppo segnano un -2,9%, il terziario -1,1%, il Made in Italy +1%. Infine, il paragone tra Roe (ritorno sul capitale proprio) e il rendimento dei titoli di Stato è favorevole alle imprese (+0,7%, contro il +0,4% del 2012) ma solo grazie al +2% delle pubbliche, mentre per i grandi gruppi e’ negativo, per un -9,7%.
E a livello di micro-impresa? Le imprese guidate da stranieri che, tra il 2012 e il 2013 sono aumentate del 3,1%, hanno toccato in valore assoluto quota 708.317. Lo rileva l’Ufficio studi della Cgia di Mestre. Quelle condotte da cinesi hanno addirittura registrato un vero e proprio boom: nel periodo preso in esame sono aumentate del 6,1%, superando di poco la soglia delle 66.000 unita’. Niente a che vedere con lo sconfortante risultato conseguito dalle imprese italiane che, purtroppo, sono diminuite dell’1,6%. Ovviamente, spiega la Cgia, bisogna ricordare che nei primi due casi stiamo parlando di qualche centinaio di migliaia di imprese, nel terzo caso, invece di milioni di attività.
Degli oltre 708 mila imprenditori stranieri presenti nel nostro Paese, il Marocco è il paese di provenienza che ne conta il maggior numero: 72.014. Segue la Romania, con 67.266 e, subito dopo, la Cina, con 66.050. Quest’ultima etnia ha “stuzzicato” l’interesse dell’Ufficio studi della Cgia che deciso di realizzare un approfondimento.
Si pensi che rispetto al 2008, le attività economiche cinesi presenti in Italia sono aumentate addirittura del 42,9%, contro un incremento medio dell’imprenditoria straniera che si e’ attestata al 23,1%. Ebbene, i settori maggiormente interessati dalla presenza degli imprenditori provenienti dall’ “impero celeste” sono il commercio, con quasi 24.050 attivita’ (con un buon numero di imprese concentrate tra i venditori ambulanti), il manifatturiero, con poco piu’ di 18.2000 imprese (quasi tutte riconducibili al tessile-abbigliamento e calzature) e la ristorazione-alberghi e bar, con oltre 13.700 attività. Ancora contenuta, ma con un trend di crescita molto importante, e’ la presenza di imprenditori cinesi nel settore dei servizi alla persona, ovvero tra i parrucchieri, le estetiste e i centri massaggi: il numero totale e’ di poco superiore alle 3.400 unita’, ma tra il 2012 ed il 2013 l’aumento e’ stato esponenziale: +34 per cento.
“Sebbene in alcune aree dell’Italia esistano delle sacche di illegalità che alimentano il lavoro nero e il mercato della contraffazione – dichiara il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – non dobbiamo dimenticare che i migranti cinesi si sono sempre contraddistinti per una forte vocazione alle attività di business. I cinesi, infatti, nel momento in cui lasciano il Paese d’origine, sono tra i migranti più abili nell’impiegare le reti etniche per realizzare il loro progetto migratorio che si realizza con l’apertura di un’attività economica”.
La vocazione imprenditoriale dei migranti cinesi, spiega la Cgia, è fortissima. Se l’incidenza degli imprenditori stranieri sul totale dei residenti stranieri presenti in Italia e’ pari al 14,4%, quelli cinesi sono addirittura il 29,6%: su oltre 223.000 cinesi residenti in Italia, ben 66.000 guidano un’attivita’ economica. La Lombardia, con oltre 14.000 attivita’, e’ la regione piu’ popolata da aziende guidate da imprenditoriali cinesi: seguono la Toscana, con poco piu’ di 11. 800 attivita’, il Veneto, con quasi 8.000 e l’Emilia Romagna, con oltre 6.800. In queste quattro Regioni si concentra oltre il 60% del totale degli imprenditori cinesi presenti nel nostro Paese. Lo scorso anno, infine, si e’ verificato un forte calo delle rimesse: l’ammontare complessivo delle somme di denaro inviate verso la Cina dagli immigrati cinesi presenti in Italia è stato di 1,10 miliardi di euro. Meno della meta’ dell’importo registrato nel 2012 (2,67 miliardi di euro). “Da sempre – conclude Bortolussi – le principali aree di provenienza dei migranti cinesi sono le province del Sud Est del paese: Zhejiang, Fujian, Guangdong e Hainan. Per queste persone, la ricerca del successo si trasforma in una specie di debito morale nei confronti della famiglia allargata e degli amici che da sempre costituiscono un sostegno irrinunciabile per chi vuole emigrare. Non e’ un caso che nonostante la contrazione registrata nel 2013, l’etnia cinese continui ad essere al primo posto nel flusso di rimesse verso il paese d’origine”.
Io li vedo i cinesi dalle mie parti in emilia.
Esistono solo ed esclusivamente le loro regole, le loro abitudini.
Se possono, di riffa o di raffa, le leggi italiane se le mettono sotto i piedi.
Si aiutano e si sfruttano fino alla schiavitù , tra loro.
Vedo i capannoni illuminati anche di notte, e spesso ci vivono.
Gli appartamenti e gli immobili che prendono in locazione li demoliscono, dopo averne manomesso ogni cosa.
In un appartamento di 55 mq ci stanno, a turno, anche 8-10 persone.
Ma sono felpati, ci sono ma non li vedi, non li noti.
Non è leggenda che i ricchi cinesi girino e concludano affari in contanti.
Dove ci sono cinesi c’è davvero un pezzo di cina.
Rimangono , e ne son contenti, cinesi ovunque siano.
Naturalmente ci sono i devianti, quelli che tentano di adattarsi un minimo all’italia e alle sue porcherie.
Ne conosco, e sono tutti disgustati dalle tasse.
Sono gentili, brava gente apparentemente.
Grandi lavoratori, con un enorme spirito di sacrificio, e bisogni ridottissimi.
Attentissimi negli affari.
E’ evidente che per sopravvivere e crescere non ci provano neppure a far parte del sistema italiano.
Lo sfruttano fin dove possibile, e vanno avanti per la loro strada.