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Agli stati in crisi piace fare la guerra

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guerradi ALESSANDRO VITALE

Non sono molti coloro i quali si rendono conto che lo Stato interventista, pianificatore, welfarista, è il primogenito della finalità primaria dello Stato moderno: quella di fare la guerra. L’interventismo statale, che oggi diamo per scontato in innumerevoli settori, un tempo considerati estranei al potere politico, non è che il prodotto logico e storico dello Stato guerrafondaio e “di potenza” (Machtstaat), che ha unito ai cosiddetti “servizi” (cittadini in salute per disporre di carne da cannone efficiente per essere mandata i guerra e con un minimo di istruzione indispensabile per farne dei soldati, ecc.) un’economia sempre più controllata da uno stato maggiore pianificatore.

Fra l’altro, anche il legame fra “Stato” e “stato maggiore” è sia etimologico che storico e si riferisce sempre a un ristretto gruppo di uomini, in carne e ossa, che decide sulla guerra. Il collettivismo statale interventista, attuato da un governo centralizzato che crea una gerarchia forzata dei bisogni da soddisfare e un inventario di fattori e precedenze nell’impiego di uomini, risorse, mezzi finanziari, è figlio legittimo di scopi e di esigenze militari che sono stati la spina dorsale dello Stato moderno. Lo Stato interventista così, nonostante le apparenze, non è stato animato dal fine di condurre una lotta per vincere le ostilità della natura, per aumentare la produzione di beni, per migliorare le condizioni umane di vita, ma da quello di sopraffare altri uomini. Tutto nello Stato interventista del Novecento, che ancora oggi sopravvive nonostante l’attacco subito dalla fine degli anni Cinquanta agli anni Novanta e i suoi colossali fallimenti, è legato alla guerra: da quella “esterna” a quella “interna”, nella forma di lotta fra bande per conquistare il bottino (monopolio incontrastato della violenza e risorse procacciate con mezzi politici, ossia ancora la violenza) che lo Stato stesso rappresenta. Questa aggregazione politica conserva inoltre nella sua genetica l’economia di guerra, che ha raggiunto il suo vertice con i totalitarismi.

La libertà di scelta di consumatori liberi e volontari per questo Leviatano non ha alcun peso. Ogni bisogno “non ammesso” non ha rilevanza. Le forze del lavoro (imprese e manodopera) sono considerate “reclutamento” e soggette a sussidio. Prevalgono le decisioni pianificatrici calate dall’alto. È da un’economia militarizzata del genere che tutte le economie regolate e controllate dallo Stato hanno derivato i loro principi basilari. Peccato che le economie “di guerra”, divenute la regola dal 1870 circa a oggi, siano anche per definizione pianificate e che in quanto tali rendano impossibile il calcolo economico, come si sa dagli anni Venti (da Mises, poi da Weber, dal russo Brutzkus e poi da Hayek) e siano spaventosamente inefficienti. I fallimenti dello Stato interventista (spreco improduttivo di risorse, paralisi della produzione, sviluppo del parassitismo, ingiustizie, soprusi, privilegi politici di singoli e di gruppi giustificati col “bene pubblico”, confisca, guerra di tutti contro tutti, militarizzazione dell’economia) non si contano.

A coloro che si ostinano a sostenere l’inesistenza di leggi e regolarità nell’azione umana in economia farebbero bene confrontare le pagine del Mises di Kritik des Interventionismus (1926) e di Interventionismus: An Economic Analysis (1940) con uno qualsiasi dei fallimenti più recenti dello “Stato-provvidenza”. Non era forse per filo e per segno prevedibile, leggendo quelle righe, la devastazione economica prodotta dall’assistenzialismo, dai sussidi politicamente erogati, dal protezionismo (ad esempio della UE) o, per fare un esempio concreto, dai salvataggi dell’Alitalia o di industrie pesanti legate al potere politico? Solo chi è in mala fede può negarlo.

Lo Stato interventista, venerato fanaticamente come “rivelazione”, come dogma di un’epoca (come scriveva Walter Lippmann), è però qualcosa di molto più pericoloso rispetto all’inefficienza che produce: costringe la persona a optare fra un’illusoria sicurezza (che viene pagata nel lungo periodo con un disastro economico, fonte di ancor maggiore insicurezza) e la sua libertà, fra garanzie instabili e concesse dall’alto e i suoi diritti naturali inviolabili.

Autentico regresso verso un livello più basso di civiltà (alla faccia della retorica “progressista”), forza a scegliere fra, da una parte, una caserma in cui prevale l’adulazione di chi comanda ed è, con una superstizione, ritenuto onnisciente e dall’altra l’indipendenza e la dignità individuali, fra l’aumento del potere dei funzionari pubblici, presentato come unica fonte di prosperità e la libertà economica e politica, fra i fini unitari e coercitivi perseguiti dallo Stato e quelli scelti dal singolo, fra la protezione dalla concorrenza di imprenditori innovatori e il proprio contributo a un’innovazione ancor maggiore. Obbliga a scegliere fra la scienza asservita e sussidiata, sottoposta a censori e inquisitori e la ricerca della verità, fatta di indagine libera e indipendente, di libertà di discussione. E chi più ne ha più ne metta.

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