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Anche la libertà di parola deve essere figlia di un’idea imprenditoriale

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di PIETRO AGRIESTI

La mia impressione è che in USA quando la gente inizia a percepire l’esistenza di un problema inizia anche, o innanzitutto, ad attivarsi sul piano imprenditoriale, a investire e a cercare di portare sul mercato delle soluzioni. Per questo quando il problema percepito da una parte sempre più consistente di persone è lo strangolamento del discorso pubblico, la censura, la manipolazione politica e statale dell’informazione, la collaborazione fascista tra – come direbbero loro – Big government e Big Tech, l’invadenza degli apparati di sicurezza americani, l’azzeramento della privacy, la collaborazione persino di vari servizi finanziari a tutto questo, etc.. iniziano a fiorire ogni tipo di proposte imprenditoriali per affrontarlo.

Da qui Parler, Gab, Gettr, Freespoke, Substack, Rumble, Locals, Mewe, Odysee, e decine, centinaia, migliaia di altre iniziative. App, social, motori di ricerca, servizi di streaming, newsletter, nuove proposte mediatiche, e chi più ne ha più ne metta.
E da qui sempre più giornalisti che lasciano le grandi media corporation e si mettono in proprio per avere maggiore libertà, come Greenwald, Taibbi, Weiss, Shellenberger, etc.. ma, attenzione, lo fanno guadagnandoci, sfruttando la tecnologia, facendo impresa, cercando la crescita e il successo sul mercato.

E attenzione gran parte di tutto questo non consiste di progetti raffazzonati, deliranti, scadenti, traballanti, ma di progetti imprenditoriali veri, innovativi, ben fatti, competitivi, in cerca dell’eccellenza, insomma coi contro coglioni.

In Italia, nonostante l’Italia sia stata sempre un paese di imprenditori, l’impressione è che oggi spesso la reazione a un problema sia piangere, lamentarsi, accusare il mondo intero, fare del moralismo, invocare lo stato e la legge, buttarla in politica, insomma qualsiasi cosa tranne reagire con un progetto imprenditoriale, con l’idea di mettersi in concorrenza a ciò che non funziona, e provare a presentare una soluzione sul mercato cercando il successo.

Specialmente se parliamo di qualcosa che ha a che fare con la cultura, con la politica, con la sfera intellettuale: l’italiano intraprendente fonderà un movimento, farà campagna elettorale, andrà in piazza, raccoglierà firme, protesterà, si iscriverà a un sindacato, farà una causa, scriverà un libro. Ma nemmeno gli passerà per la testa che la soluzione possa passare dall’impresa, dal libero mercato, dal fare concorrenza all’esistente con qualcosa di nuovo, dal cercare di fare soldi.

Innanzitutto nove volte su dieci quale che sia il problema l’intellettuale italiano dà la colpa al mercato. Quindi l’ultima cosa che farà è immaginare che il mercato possa essere la soluzione. A seguire è convinto che la cultura non debba sporcarsi cercando di farsi impresa e di fare soldi e che quindi vada finanziata dallo stato perché sia indipendente dal mercato e non il contrario.

Poi se nonostante il finanziamento pubblico un giornale, una casa editrice, una produzione cinematografica, una libreria, etc… ancora non stanno economicamente in piedi, pensa che sia perché la gente è rimbambita, e lo stato deve intervenire a incentivarla a leggere di più, a vedere più film e serie tv italiani, a comprare più libri e giornali, ad acquistare in libreria e non su Amazon, etc…

Basti pensare a quanti grandi giornalisti italiani hanno fatto quel che hanno fatto tanti in America: qualcuno si è accorto che esiste Substack e ha aperto il suo, per esempio Giulio Meotti, Roberto Iannuzzi, Alberto Mingardi, Privacy Chronicles, e qualcun altro, ma praticamente nessuno ha lasciato il proprio giornale per rendersi completamente indipendente, quasi tutti hanno semplicemente affiancato al giornale una newsletter, tutto lì.

La maggior parte probabilmente non si è accorta nemmeno che esiste Substack. In USA lasciano il New York Times per mettersi in proprio, qui non hanno il coraggio di lasciare Repubblica, il Giornale o il Corriere.

Forse sbaglio, generalizzo troppo, soffro di esterofilia, ma, senza offesa per chi invece si dà da fare sul mercato anche in Italia, dove lo so fare impresa è ben più difficile, non credo di stare esagerando più di tanto.

di LEONARDO FACCO

Caro Pietro, rilancio spesso le tue riflessioni sul MiglioVerde, le trovo sempre appropriate e foriere di spunti su cui dibattere. Detto ciò, permettimi di mettere alcuni puntini sulle i.

Primo, tu parli di fare impresa. Perfetto, anzi fantastico, qui sfondi una porta aperta. Dovresti, però, ricordare la differenza abissale tra l’essere imprenditore in Italia (cosa che lasci intuire) ed esserlo negli Usa. Al netto della questione culturale a cui tu accenni, giustamente, qui non si tratta solo di confrontare le questioni fiscali, regolamentari e burocratiche tra due paesi, ma l’approccio al sistema di business la semplicità nel farlo. L’Italia è il paese dell’ordine fascista e del sindacato unico dei giornalisti, a cui i Meotti & Co. non credo abbiano girato le spalle, mandandoli affanculo!

Secondo, non è che se Meotti, (cito il personaggio che meno mi schifa tra i nomi che hai proposto), va su Substack ecco che abbiamo da elogiare lui come fosse un imprenditore. Altrimenti, avresti dovuto, per correttezza, elogiare coloro che quindici anni fa sono andati su Youtube, o su Facebook (quando erano una “social-prateria” di libertà) e poi sono stati bannati per le loro idee. Dopodiché, i personaggi che hai proposto han forse smesso di scrivere sulla stampa igienica con cui collaborano? Guarda che non basta iscriversi a Substack per essere paragonati a Greenwald, giusto per nominare un comunicatore che so che ti sta a cuore e che stimi.

Terzo, tra me e Byoblu, ad esempio, esiste una lontananza ideologica siderale. Eppure, se proprio dovevi ricordare qualcuno, tra i non allineati, che ha messo in piedi una attività editoriale e imprenditoriale nel mondo della comunicazione, beh, c’è proprio Claudio Messora.

Quarto, per fare impresa e business serve che esista un mercato. Substack ha clienti disposti a pagare per i contenuti che propone. L’Italia è un paese di parassiti (e tra qualcuno di quelli che citi tu, ti assicuro che il parassitismo – con paraculismo annesso – va di moda, eccome).

Quinto e ultimo, approvo quanto hai scritto. Hai un progetto editoriale ed imprenditoriale da propormi? Fallo, mi piacerebbe mettermi in società con te. Ti prometto, inoltre, che mi metterei a cercare qualche finanziatore per la bisogna. Ma hai presente cosa è il mercato italiano delle idee?  

Seppur scritto di getto, tanto di dovevo. Un abbraccio e Buon Anno!

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