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Anche per l’huffington post la sardegna non è italia

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MOVIMENTO SARDUdi REDAZIONE

Esiste un capoluogo di provincia della Repubblica italiana che – persino ascoltando i telegiornali nazionali (finanziati a suon di canone) – non abbia una pronuncia univoca? Suvvia non scherziamo, siamo nel 2015. Insisto nella domanda: esiste questo comune che, persino in alcune aule universitarie, viene pronunciato con l’accento errato? Speriamo proprio di no. Soprattutto se il comune è provincia d’Italia dal 1927. Soprattutto se è abitato da più di 37.000 anime. Soprattutto se è uno dei centri storici di una delle più grandi isole del mar Mediterraneo. Eppure esiste: si tratta, purtroppo, del caso di Nùoro. Ormai addirittura in Sardegna, alcuni sardi laureati pronunciano Nuòro e ti correggono, eventualmente. Che scandalo, verrebbe da commentare. Poca cosa, invece, dirà qualcun altro. E, a ben vedere, è proprio vero. Si tratta di poca cosa: un banale epifenomeno di una storia millenaria di dominazione.

La verità è che i sardi si sono proprio abituati. Si sono così abituati, nei secoli, a essere dominati, da aver riconosciuto come propria bandiera un simbolo dell’antico dominio aragonese (affermatosi definitivamente in seguito alla battaglia di Sanluri del 30 giugno 1409). La vera bandiera dei sardi – quell’albero verde in campo bianco – si trova accantonata e, quasi, misconosciuta. Forse per un difetto di consapevolezza storica. Forse per una precisa e ormai remota intenzione politica. Sarà come sarà, ma proprio dalla carenza di consapevolezza storica prende le mosse Franciscu Sedda – professore di semiotica all’Università di Roma “Tor Vergata” e segretario nazionale dell’indipendentista Partito dei Sardi – nella stesura del suoManuale d’indipendenza nazionale. Dall’identificazione all’autodeterminazione(Edizioni della Torre, 2015).

L’intenzione politica dell’autore è, prima di tutto, ricordare la differenza storica – nella più ampia accezione del termine – esistente tra Sardegna e Italia, e denunciare che la coscienza dei sardi di essere nazione si è, negli ultimi decenni, sempre più “sbiadita fin a quasi a sparire”. Si tratta, come sempre, di una storia alimentata dalla geografia e dalla politica o, meglio, da una politica che ha finito per definire una geografia (isolamento dell’isola) e che ora potrebbe indurre i sardi, all’interno del processo di unificazione europea e delle reti di flussi globali, ad abbandonare una determinata e cristallizzata identità (autonomistica) per abbracciare una nuova e dinamica identificazione (indipendentista). Occorre però suscitare, come sempre, la consapevolezza, quella di appartenere a una nazione dalle radici antiche, che ha bisogno di inverare, per la propria sopravvivenza e un effettivo benessere, un diverso e sovrano ordinamento politico: la Repubblica di Sardegna. Nel libro l’indipendenza è dichiarata necessaria, perché “oggi più che mai è a rischio la nostra stessa sopravvivenza”. A causa di politiche del lavoro sbagliate o assenti, nel giro di pochi anni 300.000 abitanti su 1.600.000 totali saranno costretti a emigrare, “ben pochi metteranno su famiglia e faranno dei figli”.

La strada di questo processo di identificazione passa attraverso un auto-riconoscimento collettivo (positivo) dei sardi, in quanto “nuovamente sardi”, e un’azione politica, che affermi i diritti e gli interessi della Sardegna, volta al riconoscimento esterno. L’essere isola può aiutare a riscoprire aspetti della necessaria nuova identificazione, che, tuttavia, ha bisogno di alimentarsi alla fonte della storia e della consapevolezza storica di come l’identità sia mutata nel corso dei secoli e di come essa possa essere ancora riformulata. La lingua sarda come fondamento antropologico e la civiltà nuragica (ancora tutta da studiare e scoprire), le vicende politiche dei Giudicati medioevali e la rivoluzione sarda del 1793-96 come riferimenti storici capitali costituiscono i presupposti dell’auspicabile nuova identificazione.

SARDEGNAIn questo forse più che in altri casi, dalla Catalogna alla Scozia, dalla Bretagna ai Paesi Baschi, dalla Corsica a tante altre realtà culturali ed economiche, non è in discussione l’unificazione europea. Si ambisce, al contrario, proprio a dialogare da pari con gli altri Stati dell’Unione europea e contribuire a trasformarla in un’Europa dei popoli, all’interno di un quadro consapevole di interdipendenza globale. Dal 1989 – ricorda Sedda – la geopolitica europea, in modo inaspettato, è mutata radicalmente e continua a mutare. Viviamo in un mondo imprevedibile, alla cui “complessità si risponde troppo spesso con la semplificazione (che è cosa diversa da una salutare semplicità) dando adito a populismi, qualunquismi, sciovinismi e fascismi che sono la peggior risposta a domande – geopolitiche e sociali – molto spesso giuste”. Occorre, dunque, un “allargamento dell’orizzonte”, che permetta di “scoprire (o almeno ricordarci) che siamo già oggi dentro aree, istituzioni, aggregati, processi, trasformazioni ben più ampi, ben più compositi, ben più interessanti dello Stato italiano e della sua politica di corto respiro a cui, in modo monomaniacale, continuamente ci rivolgiamo per valutare noi stessi e il mondo”.

La rivendicazione espressa dall’autore non si anima, tuttavia, solo di ideali, perché – tenendo nel giusto conto il valore della responsabilità politica – si sta esprimendo quotidianamente, attraverso il partito di cui egli è esponente di spicco, in pratiche di governo territoriale che sembrano dare i loro frutti, affrontando il problema dell’Agenzia delle entrate, quello di un’autostrada e di una ferrovia che attraversino finalmente la Sardegna, quello delle servitù militari e dell’inquinamento industriale e militare di alcune zone dell’isola.
In questa nuova prospettiva (che critica ogni “nazionalismo sciovinista ed anti-europeo”, ogni “populismo ambiguo e semplificante”, ogni “destra xenofoba e intollerante”), la creazione di una Repubblica di Sardegna – osserva Sedda – “può e deve essere parte del nostro contributo alla costruzione di un’Europa diversa e migliore”. In effetti, sembra che “il nuovo indipendentismo che aleggia in Europa” possa essere “uno dei principali fattori di dinamismo, ripensamento e rivitalizzazione dell’idea di Europa nel suo senso più alto e nobile, ovvero come spazio di pace, giustizia, diritti”.

Attraverso l’osservazione di quanto realizzato da altri movimenti indipendentisti europei, è possibile secondo l’autore indicare alcuni aspetti di questa lotta politica: sviluppo di una coscienza nazionale rivolta al futuro, inclusiva, in costante traduzione; rivalutazione della dignità della lingua sarda, all’interno di un quadro volontariamente plurilinguistico; considerazione dei problemi fiscali come connessi direttamente a quelli sociali e politici; assunzione autonoma di responsabilità politiche, che alimentino una reale manifestazione di sovranità territoriale; e, infine, sviluppo nell’isola di un indipendentismo credibile (capace di intercettare pienamente quel sentimento indipendentista che, secondo alcune ricerche demoscopiche, viaggia attualmente già intorno al 40% della popolazione).

Peraltro, precisa Sedda, nel diritto internazionale è riconosciuto il diritto all’auto-determinazione dei popoli e questa strada è perseguibile, altrove come in Sardegna, attraverso diversi strumenti politici: la condivisione con la Repubblica italiana di un processo di indipendenza negoziata o, in via alternativa, la proclamazione di un referendum di autodeterminazione, entrambi alimentati da una generale mobilitazione per l’affermazione del principio democratico. L’autoproclamazione d’indipendenza, infatti, come hanno mostrato recenti accadimenti politici in Europa, è un atto non contrario al diritto internazionale, in presenza di determinati requisiti: espressione di un parlamento democraticamente eletto, nel rispetto e nell’intensificazione dei valori di democrazia, secolarismo e multietnicità, in un quadro e una storia di autogoverno, che venga così semplicemente rafforzato attraverso l’indipendenza politica. Come osserva l’autore, il 25% degli attuali 193 Stati del mondo (ben dieci Stati europei) ha una popolazione inferiore a quella della Sardegna e, “che piaccia o non piaccia, oggigiorno e probabilmente ancora per lungo tempo, tanto l’Onu quanto le istituzioni europee presenti e future sono e saranno unioni di Stati”. Forse è anche questa una delle vie complementari al governo democratico della glocalizzazione.

Articolo di Davide Cadeddu, politologo, Università di Milano. Tratto da HUFFINGTONPOST

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1 COMMENT

  1. condivisibile appieno, da veneta che il diritto di autodeterminazione l’ha già esercitato con Plebiscito.eu la primavera dello scorso anno, con pieno successo che quanto prima porterà all’attuazione dell’indipendenza del Veneto… viva i Veneti, viva i sardi a cui faccio tutti i miei auguri!

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