“Negli ultimi anni l’austerità non è stata certamente una buona cosa: l’acqua disseta, ma troppa acqua annega. Ed è stupefacente come questi primi abbrivi di ripresa dell’economia italiana che si stanno manifestando siano emersi malgrado la politica di bilancio continui a essere restrittiva”. Negli ultimi anni “austerità” è uno dei termini più utilizzati (soprattutto) dai keynesiani come Galimberti, quasi sempre a sproposito. L’austerità sarebbe colpevole di aver tarpato le ali alla possibile ripresa dell’economia. Il tutto perché non si è lasciato correre allegramente il deficit senza porre alcun freno. Ma cercare di contenere il deficit (peraltro in virtù di vincoli esterni, non certo per la volontà dei governanti di turno) non equivale a praticare l’austerità, a meno che la politica fiscale restrittiva non sia posta in essere solo mediante riduzione di spesa pubblica.
Cosa che non è affatto avvenuta, anche se i fautori della spesa pubblica come veicolo di crescita economica amano ripetere che in questi anni si sono fatti tagli per il semplice fatto che è diminuito il trend di crescita (di alcune voci) della spesa. Il problema è che, come ho documentato in altre occasioni, la riduzione nel trend di crescita della spesa è stata inferiore alla riduzione nel trend di crescita del Pil nominale.
La vera austerità, quindi, è stata imposta ai pagatori netti di tasse, che hanno visto aumentare ulteriormente il già pesante fardello fiscale preteso dallo Stato (e dalle sue articolazioni territoriali). Con meno freni alla crescita della spesa pubblica le cose sarebbero andate meglio? L’esperienza ultraventennale del Giappone e quella più recente della Francia (che se ne è bellamente fregata dei vincoli europei e sta facendo deficit a volontà da diversi anni) non sembrano portare acqua al mulino keynesiano. Quanto all’Italia, negli anni in cui la spesa cresceva e il deficit pure, non si è fatto altro che porre le basi per i problemi dai quali oggi si stenta a uscire, non da ultimo perché la spesa pubblica crea dipendenza sia in chi ne beneficia, sia nei politici che la erogano.
Galimberti cita poi i fattori a sostegno dell’economia che ormai come un disco rotto si sentono ripetere dal mainstream: il calo del prezzo del petrolio, la svalutazione dell’euro e il quantitative easing. Al cui proposito sostiene che “nel caso del Qe (l’espansione quantitativa della moneta), la discesa dei tassi è un bene per i prenditori di fondi, ma un male per i prestatori, a cominciare dalle famiglie che risparmiano. Tuttavia, queste si possono consolare con altre destinazioni del risparmio, a cominciare dalla Borsa e dalle obbligazioni societarie: maxi o mini-bond societari, della cui promozione c’è un gran bisogno, dato che, in Europa e specialmente in Italia, è cruciale svezzare le imprese dalla loro dipendenza dai prestiti bancari”.
Il problema è che quando i tassi di interesse sono bassi non per un eccesso di risparmio reale ma per effetto di politiche monetarie espansive, quelli che Mises definiva “malinvestimenti” appaiono artificialmente profittevoli. Tuttavia, una successiva interruzione (o riduzione) delle politiche inflattive ne determinerà il fallimento, con annessa distruzione anche dei risparmi di coloro che sono stati spinti a cercare un rendimento in attività rischiose perché sono stati azzerati (o addirittura portati sotto zero) i tassi di interesse sulle attività meno rischiose.
L’alternativa per il risparmiatore “prudente” diventa quindi quella tra vedere erodere il potere d’acquisto dei propri risparmi, oppure assumere il rischio di perdite in conto capitale in un futuro più o meno distante. Altrimenti può ridurre il risparmio e aumentare la spesa, per la felicità dei keynesiani, che gioiranno per la crescita immediata del Pil. E poco male se in futuro non avrà risorse a cui attingere per far fronte ai problemi che potessero insorgere. Tanto “nel lungo periodo saremo tutti morti”.
Non mi pare che lo stato italiano si sia messo a dieta, riducendo spese e azzerando privilegi e sprechi.
Noto , invece, che la pressione fiscale e gli abusi burocratici aumentano.
A stecchetto forzato ci sta la gente comune, il ceto produttivo.