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Autonomia differenziata: alla fine è sempre una questione di tasse altrui

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di MATTEO CORSINI

Nel dibattito sulla autonomia differenziata, ho letto un articolo di Floriana Cerniglia, docente di Economia Politica all’Università Cattolica di Milano, che nutre perplessità, per usare un eufemismo. Ma qualcosa non torna nel suo argomentare.

  • “Tutti i progetti di decentramento devono sempre misurarsi con la distribuzione territoriale delle risorse: bisogna finanziare una spesa decentrata grosso modo uniforme (perché mai i fabbisogni di spesa/diritti dovrebbero essere diversi tra le Regioni?) e assicurare ai governi locali entrate sufficienti con tributi locali e trasferimenti perequativi per i territori con minore gettito fiscale. L’attuazione di questo principio cardine del federalismo fiscale, sancito nell’articolo 119 della Costituzione, è impresa ardua”.

Il fatto è che, secondo Istat, oggi la spesa pubblica pro capite non solo non è uniforme, ma è superiore nelle regioni tra le più contrarie all’autonomia. Il tutto volendo tacere sull’implicita parziale servitù involontaria a cui sono sottoposti i pagatori netti di tasse. Su questo tutti quanti si appoggiano alla Costituzione, che però non è (non dovrebbe essere) un testo sacro. Continua Cerniglia:

  • “Con un sistema tributario progressivo chi è più ricco paga di più per ogni tòt di spesa che riceve. Poiché nel Nord c’è una maggiore concentrazione dei redditi alti, quei cittadini pagano di più di quanto ricevono in termini di spesa pubblica. Questa differenza deve essere ridotta, secondo il mantra del residuo fiscale, cavallo di battaglia di alcuni partiti politici. Nei fatti però un ricco campano paga quanto un ricco lombardo ma riceve meno, si pensi alla mancanza di asili nido o di classi a tempo pieno nelle Regioni del Sud”.

In Campania la spesa pubblica pro capite è pari a 4.429 euro, mentre in Lombardia si ferma a 3.541 euro. Quindi quei soldi saranno con ogni probabilità spesi peggio, ma non è vero che ne siano spesi meno.

Si passa poi alla questione dei Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), e qui Cerniglia contesta la proposta della Commissione Cassese di considerare il costo della vita nelle diverse regioni per determinarli.

“Ogni Regione ha lo stesso Lep/diritto (un insegnante ogni X studenti, ad esempio) ma dove il costo della vita è più alto quel diritto necessita di maggiori risorse dallo Stato. Supponiamo di avere uno Stato con due sole Regioni identiche per numero di studenti, ma una più ricca e una più povera; in quella più ricca il costo della vita è più alto e quest’anno la legge di bilancio finanzia solo 100 per quel diritto. Il riparto non sarà 50 e 50, ma 70 dove il costo della vita è alto, 30 nell’altra. Tramite la variabile “costo della vita” si è ridotto il residuo fiscale. Ma perché mai il contribuente ricco che vive nella Regione povera dovrebbe pagare l’aliquota marginale del 43% che serve a finanziare i 100? Potrebbe chiedere uno sconto sulla base del costo della vita”!

L’argomento non mi convince. Qui si sta parlando di Irpef che, a parte qualche deduzione, è un’imposta sui redditi lordi. Quindi si potrebbe osservare che dove il costo della vita è più alto, a parità di reddito il potere d’acquisto è inferiore. Detto in altri termini, ipotizzando lo stesso tipo di consumi e altre spese correnti, chi risiede dove il costo della vita è inferiore è relativamente più ricco, a parità di reddito, rispetto a chi vive in regioni dove vivere costa di più.

Tutto ciò detto, il problema di fondo resta quello della suddivisione tra pagatori netti e consumatori netti di tasse. Questo vale a livello individuale. Ed è a partire dagli individui che inizia il problema degli effetti della servitù involontaria imposta mediante il randello fiscale. La soluzione non è pretendere di mantenere questa servitù a livello regionale (o nazionale, o continentale).

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