Dalla cima del Camp Nou gli scatti nervosi di Lionel Messi hanno i contorni sfocati del racconto di un vecchio emigrante in terra d’Argentina. Al diciassettesimo minuto del primo tempo di questo sommesso Barcellona-Ajax di mezzo autunno, la Pulce ha già avuto modo di regalare a Neymar un assist impossibile da sprecare, altri cinque e il fuoriclasse blaugrana raddoppierà chiudendo virtualmente la partita. Siamo a metà del gironcino di Champions League, e la qualificazione è in tasca. Ma il minuto diciassette, da un paio d’anni, è quello in cui il Camp Nou smette per qualche istante di essere un semplice stadio di calcio e si trasforma in un megafono della causa nazionalista catalana. Minuto diciassette e quattordici secondi, per l’esattezza: 17.14, in ricordo dell’anno – tre secoli fa tondi tondi – in cui Barcellona cadde per mano delle truppe borboniche durante la Guerra di Successione spagnola. È la data chiave intorno a cui da queste parti si è ricostruita, o secondo alcuni inventata, l’identità storica alla base della rivendicazione di una Catalogna libera e indipendente. Il coro che si leva dagli spalti è questo, puro e semplice: “Independència”, scandito sillabando la parola in crescendo, come negli ultimi mesi sta crescendo l’onda di chi, nella ricca comunità autonoma, vuole staccarsi da Madrid. L’effetto non è così impressionante. Per una manciata di secondi dagli spalti più bassi della Gol Norte, la curva dove trovano posto gli sparuti resti della tifoseria organizzata dell’Fc Barcellona, spunta una piccola selva di bandiere catalane e di esteladas, i vessilli degli indipendentisti. Le voci più potenti vengono da lì, ma il grosso del Camp Nou non le segue. Stimare quanti tifosi culé partecipino a questo rito collettivo è impossibile, ma senza dubbio sono meno della metà. “È perché è una partita di Champions”, dice Joni. “In campionato c’è più partecipazione”. –
Joni è uno dei ragazzi dei Dracs 1991, penya che negli anni ’90 è stata tra le più importanti della tifoseria del Barça, e oggi imperversa sulle tribune del Palau Blaugrana, alle partite delle squadre di pallacanestro e calcetto del club. Il calcio per loro rimane una passione da coltivare individualmente, per scarsa sintonia con le altre fazioni e per la nuova politica imposta da Joan Laporta, il presidente con cui è nato il Dream Team di Pep Guardiola. Tolleranza zero con gli ultrà, e spicchi di curva minuscoli concessi alle singole sigle. L’aveva spiegato bene ventiquattrore prima della partita Toni Valle, portavoce dei Dracs, al bancone del locale del gruppo: “Negli anni ’90 il potere, nel calcio spagnolo, era tutto nelle mani degli ultrà. Erano diventati criminali organizzati, che gestivano droga e giri d’estorsione. La reazione dei club è stata durissima. Ora è tutta un’altra storia. Ma alle partite di calcio, in pratica, è impossibile organizzare coreografie. Ecco perché noi seguiamo soprattutto il basket”. Su una parete campeggiano quattro enormi loghi neri, che spiegano bene le anime dei Dracs. Il Dragone, il simbolo. Lo stemma del Fc Barcellona. La estelada. E infine un pugno chiuso coronato dalla scritta “Revolta i Lluita”. “Rivolta e Lotta”. Calcio, indipendentismo e radicalismo di sinistra. “È la prima volta che i partiti devono seguire i movimenti sociali. Un fatto di portata storica”, dice Toni. Il legame tra Barça e indipendentismo, peraltro, ha radici vecchie quasi quanto il club, nato nel 1899.
Lo spiega bene Alejandro Quiroga, storico che ha appena scritto un saggio, intitolato Gol y Banderas, proprio sui rapporti tra calcio e nazionalismi in Spagna: “Risale ai primi del Novecento, ma si consolida negli anni ’20 con la dittatura di Primo de Rivera. Dopo la Guerra Civile il Barça come il resto delle squadre spagnole viene controllato dai falangisti, ma alla fine degli anni ’60 cominciano a entrare nella dirigenza persone legate al catalanismo conservatore di Jordi Pujol. Con la transizione il processo di catalanizzazione del Barcellona accelera, fino alle posizioni apertamente indipendentiste di Laporta”. Giusto un paio di settimane fa il club ha aderito al Patto Nazionale per il Diritto a Decidere, movimento che si batte perché il popolo catalano possa esprimersi, attraverso un referendum ufficiale, sull’indipendenza. Un referendum sempre osteggiato dal governo di Madrid e dalle istituzioni centrali spagnole. A settembre il Tribunale Costituzionale aveva posto il suo veto a un primo referendum consultivo promosso dalla Generalitat, due giorni fa ha bloccato anche il “surrogato del surrogato”, la consultazione informale che il president Artur Mas aveva avallato per il 9 novembre dopo la prima decisione del massimo organo di guirisdizione statale. Ma sfruttando le ingenti energie delle organizzazioni civiche impegnate nel proceso soberanista, in forma ufficiosa e altamente depotenziata domenica questo pseudo-referendum verrà in ogni caso celebrato negli oltre novecento municipi catalani.
Marc Duch, uno degli oltre 150 mila soci del Barcellona, è tra i fondatori di Manifest Blaugrana, che tra i suoi obiettivi si prefigurava proprio quello di tirare il Barça dentro la battaglia indipendentista. “La società ha temporeggiato perché ha interessi commerciali enormi in tutta la Spagna”, dice. D’altronde la squadra di Luis Enrique conta tifosi ovunque. Cosa ne pensano, i culé non catalani, della faccenda dell’indipendenza? “So che qualcuno ogni tanto protesta col club. Ma la maggior parte, pur non sentendosi vicina alla causa, non si fa problemi. Se sei un tifoso del Barcellona devi conoscere la storia del club. E se conosci la storia del club non puoi che rispettare i suoi vincoli con l’indipendentismo”. Ma qualora l’indipendenza arrivasse veramente in quale campionato finirebbe per giocare il Barça? In una Liga catalana con Espanyol, Girona e Nástic di Tarragona? “Ma no!”, ride Duch. “Cosa sarebbe la Liga spagnola senza il Barça? Non ci caccerebbero mai. Chiedilo alle televisioni”. Quando il Camp Nou, pochi minuti dopo la fine della partita vinta da Messi e compagni contro l’Ajax, si svuota, sul lato degli spalti che guarda a Madrid si compone una frase che il marketing prima ancora dello spirito blaugrana ha impresso nelle menti degli appassionati di tutto il mondo. “Més que un club”. Il Barça è più di una squadra di calcio, certo. E per molti versi, considerando la ricaduta emotiva del processo secessionista e le sue implicazioni da tifo da stadio, forse è vero che il calcio è molto più di un semplice strumento per arrivare all’indipendenza.