Durante i miei viaggi molto ho appreso per la causa dell’indipendenza. Da piccoli, talvolta minimi segnali, mi sono reso conto che i popoli che davvero aspirano all’indipendenza fanno di tutto per renderla, agli occhi del mondo, e dei loro (per ora) connazionali, una scelta del tutto “naturale”, per quanto possa essere naturale quanto appartiene al regno della storia e della politica (regni dove assai spesso sovrano è proprio l’artificio).
Così a Londra, nella Londra tutta prese dalla febbre olimpica, a Liverpool Street Station, ho notato una scritta sulle macchinette che vendono i biglietti della metro: “Non si accettano le sterline scozzesi”. Ebbene, in qualche modo una scritta del genere testimonia che le sterline scozzesi sono state già ampliamente accettate dalla coscienza pubblica (anche se non dagli amministratori della “tube”). Ugualmente, a Vigo, in Galicia, non solo sono stato colpito dalle scritte bilingui, ancorché il gallego presenti affinità con il castigliano (e questo sia preso con il beneficio del dubbio, non essendo io un linguista) maggiori di quanto non lo siano, almeno in apparenza, quelle del catalano; ma mi ha anche colpito il fatto che il bancomat presentasse tutte le lingue spagnole, generalmente tutte romanze (l’eccezione, quell’unicum di “senza famiglia”, l’euskadi), tra le opzioni per l’utente, oltre naturalmente ad inglese, tedesco e francese. A Gibilterra poi ho visto quanto la possibilità di una “secessione” da Londra sia tenuta in considerazione, come del resto è discussa, valutata, e spesso rifiutata negli altri 13 territori di oltremare della Corona britannica (oltre a rallegrarmi della presenza di un cospicuo numero di genovesi).
Ma è stato a Barcellona, naturalmente, che ho toccato quasi con mano una condizione felice che sarebbe bene che fosse presente anche in Veneto, Sardegna, Lombardia, ecc. L’indipendenza è considerata qui pacificamente come un futuro tranquillamente possibile, un’opportunità, una possibilità, una scelta da compiere, quando sarà il caso, con serenità e accortezza. La fine delle residue autonomie (ma non già della completa indipendenza, terminata da tempo allora) catalane data 1714, con l’infausto (per la Catalogna e non solo per essa) esito della guerra di successione spagnola. Nel 1797 invece Venezia (e poco prima Genova) avevano perso proprio quell’indipendenza millenaria che nel 1714 la Catalogna ricordava soltanto, annientata da tempo, e divisa da mezzo secolo tra una parte francese (Perpignan) ed una spagnola. Certo il Veneto non ha avuto quell’Ottocento spavaldo della Catalogna in fermento, non ha avuto un Pompeu Fabra che nei primi decenni del Novecento standardizzasse la lingua, peraltro con tutto il rispetto necessario per le varianti locali. Parlerei, anzi scriverei per ore su Barcellona, per quel che mi lega (molto) alla città, ma mi basti, qui ed ora, menzionare e descrivere un gioiello autentico della città.
Si tratta del Museu d’Historia de Catalunya , aperto nel 1996, in uno dei magazzini del porto antico, costruito sul finire dell’Ottocento da un importante architetto. I ricuperi ad uso turistico-culturale dei porti antichi sono senz’altro meritevoli. Nella mia città, Genova, il ricupero è stato benedetto dal genio di Renzo Piano, ma il Museo del Mare che vi è stato inserito è piccola e povera cosa. Dovrebbe essere un Museo di Storia di Genova, della Superba, storia che nulla ha da invidiare alla storia gloriosa di Catalogna o Venezia. E invece, per la miseria morale e l’infingardaggine dei suoi creatori, tutti timorosi di risvegliare chissà quali nazionalismi, il museo genovese è un nulla per cui si paga un biglietto di ingresso.
Tutt’altra la vicenda del museo di Barcellona. Per uno storico, ma anche per uno studente (di ogni età) o un semplice turista interessato, è un autentico tesoro, con tutte, ma proprio tutte le caratteristiche di un museo contemporaneo, dall’interattività ai dispositivi per i bambini alle curiosità di intrattenimento (in un sacco sono riunite tutte le armi, elmo e corazza di un cavaliere medievale, e legata al sacco è una fune che consente di sollevarli, e percepire quanto fosse il peso che un cavaliere si portava normalmente appresso… tanto…). La storia come è doveroso parte dalla “pre-istoria” (se questo termine ha ancora un senso), dall’antichità più estrema, dunque, per giungere ai nostri giorni. Si tratta in tutto di sette sezioni distribuite su due piani, dalle “radici” (che giungono fino al XVIII secolo , però!), alla “nascita della nazione” (VIII-XIII secolo); all’ “impero marittimo” (XIII-XVI secolo); al periodo asburgico (XVI-XVIII secolo), all’età del vapore (XVIII-XIX) e della crescita industriale; per giungere agli “anni elettrici” (1900-1939), e al presente (“Sconfitta e rinascita” si intitola la sessione dal 1940 al 1980). Al primo piano trovano spazio le esposizioni permanenti: quella che abbiamo incontrato noi, aperta fino al 24 settembre 2012, è dedicata all’illustratrice Lola Anglada (1892-1984), fervente catalanista, repubblicana e anti-franchista, amica, tra gli altri, del mitico presidente Francesc Macià. Nel lungo periodo della dittatura di Franco, il tempo più oscuro per i Catalani in millenni di storia, Lola vivette per decenni nascosta a Tiana, continuando, tra mille difficoltà, il suo lavoro.
In conclusione, invito chiunque sia interessato alla storia della Catalogna, ma più in generale all’identità e all’orgoglio dei popoli, a visitare questo museo. Non esiste un catalogo generale, ma si trova in vendita, nella libreria all’uscita, un volume, “Historia de Catalunya”, anche in inglese e castigliano, riccamente illustrato, che vale come una sorta di catalogo riassuntivo, molto ben fatto, giustamente didascalico. Finalmente, di ritorno, mi cullo nel sogno che un giorno nasca un Museo della Storia della Venetia, non necessariamente a Venezia (che ne ha già troppi), ma forse a Belluno o Rovigo o Mestre, per valorizzare ulteriormente queste piccole bellissime città, o ad Abano (ad esempio, nell’attuale Hotel dell’Orologio, una vergogna che un simile edificio, al centro esatto della città, sia inutilizzato e probabilmente, dietro una facciata ancora decorosa, stia cadendo a pezzi).
Un museo che narri una storia millenaria, partendo anche in questo caso dal 3000 a.C. per giungere ai nostri giorni. Non mancherebbero i materiali, di ogni tipo! La frammentazione della storia veneta (ad Adria ed Este la storia preromana, al Correr e in molti altri spazi quella della Serenissima, al Pedrocchi la storia dalla conquista sabauda alla seconda strage mondiale), è uno degli innumerevoli, astuti artifici operati dal governo occupante per spezzare la continuità di una vicenda di circa 5000 anni almeno, continuità fondamentale per un eventuale, auspicale futuro di completa indipendenza, e spesso avvertita tuttora.
Io invece credo che se la storia della Serenissima andasse a finire in un unico museo finanziato e governato da Roma sarebbe certificarne la fine… per ora meglio i musei sparsi nelle citta’ venete che ne documentino la vitalita’ di storia commerci e rapporti che i Veneti hanno vissuto e coltivato anche autonomamente rispetto a Venezia per secoli e starebbero a testimoniarne la vivacita’ e la non subordinarieta’ che ne hanno sempre caratterizzato la vita attraverso i secoli…perche’ il problema di sudditanza rispetto a Venezia non esisteva essendosi formalizzati i rapporti solo piu’ tardi, quando patti di Venezia con l’entroterra veneto si andarono facendo a difesa della popolazione nei confronti di una eventuale ingerenza esterna in appoggio ai vari potentati locali…
Grazie Filippo dell’ottima precisazione
Consiglio di vedere anche i Musei Civici di Padova: le collezioni sono povere, ma spaziano sull’intera storia cittadina. Di interessante, ci sono una sepoltura veneta antica (uomo e cavallo, a testimoniare il legame storico e preistorico che hanno i veneti col mondo equestre), una stele che forse farà arrabbiare qualche “padano” (cavaliere veneto che sconfigge un fante gallo), qualche reperto egizio donato dal Belzoni, ed un crocifisso di Giotto.
Il Veneto, forse, soffre anche per il suo policentrismo, con le sue tre “capitali” (Padova, antica; Verona, medievale; Venezia, moderna) che ancora oggi sono in conflitto tra di loro e si dividono il “potere” locale (Venezia, amministrativo e turistico; Padova, militare austriaco/italiano ed universitario; Verona, militare NATO e commerciale).
Tra l’altro, Venezia rappresenta un corpo alieno al Veneto di terraferma, un po’ come New York City per il resto degli USA: non esisteva nell’antichità, visse una storia completamente separata nel Medioevo (Venezia “bizantina” e marinara, contrapposta alle città “tedesche” e terrestri), e fu infine più matrigna che madre nell’età moderna (innegabili sia i contributi positivi della sua dominazione, che appunto il fatto che fosse una dominazione e non uno stato “nazionale”).
Insomma, una gran confusione storica, culturale e sociale! Inoltre, sinceramente, io non riesco francamente a scindere la storia dei veneti da quella dei furlani, lombardi orientali ed istriani, una storia che fu sempre comune dall’antichità, con periodiche “rotture” e “ricuciture” a seconda degli eventi degli ultimi 3mila anni.