di MARCO TAMBURELLI
Continua la sagra dell’ignoranza arrogante, presieduta dai paladini della glottofobia a tutti i costi. Qui (immagine sotto) ne abbiamo un esempio perfetto, con il numero quasi record di due affermazioni false in tre righe mal scritte, manco lo facessero apposta.
Allora, io sarò anche lombardofono, e quindi magari le sottigliezze della lingua italiana mi sfuggono, ma quel “ma l’Italia” nel titolo sembra suggerire che la conoscenza del’inglese sia interamente scollegata, se non addirittura opposta, alla conoscenza di una lingua regionale come il veneto. Ma dove li vanno a pescare questi? Spero non nel Po, che già ha sofferto tanto.
Eppure, la gente che veramente ci tiene a saperne di queste cose, ha studiato i legami fra il bilinguismo e la conoscenza dell’inglese, scegliendo la razionalità, la scienza e la ricerca al posto dello sparare sentenze a caso. E con metodi rigorosamente scientifici hanno scoperto che chi parla ed è alfabetizzato sia in una lingua regionale che in una lingua di stato è, guarda un po’, profondamente avvantaggiato nell’apprendimento di un’altra lingua come, e sì, l’inglese. Ma varda un poo ti.
E le prove sono schiaccianti. Cristina Sanz della Georgetown University ha condotto uno studio che ha coinvolto più di 200 studenti (mica quattro gatti eh…) paragonando bilingui catalano-spagnolo ai monolingui ispanofoni che stavano studiando l’inglese come seconda lingua (per i monolingui ispanofoni) o terza lingua (per i bilingui spagnolo-catalano). Una volta controllati fattori come lo stato socio-economico, l’ammontare di esposizione all’inglese, l’intelligenza generale e la motivazione, si è scoperto che – guada un po’ i casi della vita – i bilingui catalano-spagnolo sono fortemente avvantaggiati in diverse misure della conoscenza della lingua inglese, tra cui la scrittura, la conversazione, la lettura, la grammatica e il vocabolario.
Ma non finisce qui. Uno studio condotto da Carmen Muñoz dell’Università di Barcellona ha preso in esame l’apprendimento dell’inglese come terza lingua, mettendo a confronto studenti che presentano un diverso livello di competenza bilingue catalano-spagnolo. I risultati indicano che un livello più alto di bilinguismo catalano-spagnolo è associato a un livello più alto di punteggi in diverse misure di scrittura in inglese come terza lingua. Simili risultati sono stati ottenuti da Gonzalez Ardeo e Lasagabaster (Universidad del País Vasco) con studi sui bilingui basco-spagnolo. Insomma, i dati ci sono, basta volerli conoscere.
Ma la sagra dell’ignoranza arrogante è un po’ come la miseria, ama fare le cose in grande. E così, dopo la menzogna dell’inglese, troviamo l’altra affermazione palesemente falsa, ovvero l’idea – interamente priva di fondamento – che il veneto nelle scuole “non aiuterebbe a preparare le future generazioni al confronto con il mondo”.
Questa è grossa, ma grossa davvero. Forse sarebbe stata sufficientemente pseudointellettuale settant’anni fa, quando si credeva che i bilingui fossero ritardati. Ma oggi? Oggi i vantaggi cognitivi associati al bilinguismo sono risaputi, e sono proprio del tipo che aiuta a confrontarsi con il mondo. E sì, perche’ il bilinguismo, anche quello regionale, può stimolare l’intelligenza, la capacità di concentrazione, e l’apertura mentale. Questi sono alcuni dei motivi che hanno portato parecchi governi di parecchie regioni d’Europa a inserire le lingue regionali nelle scuole come lingue veicolari, come per esempio in Galles e in Frisia, e come avevo già riportato in modo più dettagliato qui.
Adesso, l’ignoranza non è certo peccato, e siamo tutti un po’ ignoranti, ma almeno alcuni di noi non hanno l’arroganza di sfoggiarla in un articolo di giornale.
Come arrampicarsi sugli specchi, mada “studiati”…
Gli esempi di bilinguismo in quelle 4 statistiche alle vongole che citi, non hanno nulla a che vedere con la patetica medioevale proposta di studio a scuola di una lingua regionale, proposta che è pura propaganda ideologica, nonché vittimista di rosiconi del nord.
Catalano e Castigliano in certi territori coesistono da sempre. E quindi si può parlare di bilinguismo. E così altri esempi simili.
Inoltre a differenza degli esempi ispanici, in Italia ogni Comune e addirittura quartiere spesso ha la propria lingua: cosa facciamo centinaia o migliaia di corsi di lingua in più, solo per far contenti dei caproni acculturati ma egoisti e irrealistici come voi?
I ragazzi di oggi non parlano più nessun dialetto (tutti meravigliosi) da quarant’anni. Insegnarglielo nelle scuole a forza, a) toglierebbe spazio ad altre materie, b) gli farebbe odiare la materia e mai più la impareranno. Se vuoi distruggere le lingue locali, il miglior metodo è insegnarle nelle nostre scuole. Chi non capisce questa cosa o non è mai stato in una scuola pubblica oppure non è ignorante… ma proprio di un altro pianeta proprio.
Non so se fate più ridere o piangere.
Auguri e addio
M
Anche secondo me la proposta leghista è demenziale!
Insegnare “a forza”? Che c’entra con la possibilità di imparare? Se la proposta leghista è quella di costringere a effettuare un ulteriore studio curriculare per superare un anno scolastico, certo che è una proposta sbagliata. Ben diverso è offrire la possibilità di un approccio con dei dialetti che in realtà sono vere e proprie lingue. “Il Campiello” goldoniano è scritto interamente in veneto. Bisognerebbe forse per questo impedirne la lettura? In Italia si giudica sulle abilità fisiche. Non sarebbe meglio se le scuole avessero ognuna delle palestre autenticamente attrezzate dove chi si iscrive ci va liberamente senza dovere raggiungere un punteggio? idem per la religione e per tante altre discipline. Meglio ancora sarebbe abolire punteggi e titoli di studio preunivesitari. Ci penserebbero i singoli atenei a stabilire chi è adatto alla frequenza dei corsi accademici. Il vero problema dovrebbe consistere nell’evitare che i nuovi insegnamenti servano solo a creare nuove cattedre e quindi ulteriore spesa pubblica. Ma è la scuola in generale a non dover essere né pubblica né obbligatoria. Comunque non è vero che i giovani di oggi non parlino più alcun dialetto. Evidentemente ad abitare in un altro pianeta non sono solo i cosiddetti irrealisti.
Lettera di Gramsci alla sorella:
(..)Franco mi pare molto vispo e intelligente: penso che parli già correttamente. In che lingua parla? Spero che lo lascerete parlare in sardo e non gli darete dei dispiaceri a questo proposito. È stato un errore, per me, non aver lasciato che Edmea, da bambinetta, parlasse liberamente il sardo. Ciò ha nociuto alla sua formazione intellettuale e ha messo una camicia di forza alla sua fantasia. Non devi fare questo errore coi tuoi bambini. Intanto il sardo non è un dialetto, ma una lingua a sé, quantunque non abbia una grande letteratura, ed è bene che i bambini imparino più lingue, se è possibile. Poi, l’italiano, che voi gli insegnerete, sarà una lingua povera, monca,fatta solo di quelle poche frasi e parole delle vostre conversazioni con lui, puramente infantile; egli non avrà contatto con l’ambiente generale e finirà con l’apprendere due gerghi e nessuna lingua: un gergo italiano per la conversazione ufficiale con voi e un gergo sardo, appreso a pezzi e bocconi, per parlare con gli altri bambini e con la gente che incontra per la strada o in piazza. Ti raccomando, proprio di cuore, di non commettere un tale errore e di lasciare che i tuoi bambini succhino tutto il sardismo che vogliono e si sviluppino spontaneamente nell’ambiente naturale in cui sono nati: ciò non sarà un impaccio per il loro avvenire, tutt’altro.(..). Che dire?
L’italiano è una lingua artificiale, più o meno come l’esperanto, derivante dal dialetto fiorentino, parlata da pochissime persone ed imposta a scapito di lingue locali e minoritarie ben più diffuse od antiche. Se penso al tempo sprecato a studiare l’italiano, lingua estera e totalmente inutile, mi viene semplicemente rabbia. Bastava seguire la storia, in Piemonte si è sempre parlato piemontese e scritto in francese, queste dovevano essere le due lingue della regione e si sa che chi cresce in ambiente bilingue è più portato ad impararne delle nuove. E lo stesso vale per tutte le regioni (meglio cantoni) della Longobardia.
E’ dal 1968 che dicono sciocchezze, dallo stesso anno sfoggiano arrogantemente la loro crassa ignoranza. Traian Basescu, ex presidente della Romania, chiese al suo parlamento l’introduzione dello studio dei regionalismi nei corsi dell’istruzione ufficiale. Già, ma lui è conservatore; mica come quei sapientoni che si autodefiniscono progressisti per poi bloccare il progresso autentico in nome della fittizia lotta all’anidride carbonica. Il veneto, come quasi tutti i dialetti (o forse proprio tutti), è precedente all’italiano che è tale solo dopo l’ormai celebre risciacquatura manzoniana dei panni in Arno. Lo studio del veneto, come quello degli altri idiomi dialettali, andrebbe considerato come un accostamento culturale a una lingua semi – antica e chi l’apprende finisce per essere conseguenzialmente agevolato anche nello studio delle lingue antiche. Forse è proprio questo che non vogliono, l’approccio all’etimologia è una risorsa cerebrale in più che può mettere in discussione gli elementi basilari della loro neolingua; o meglio: pseudolingua. E’ appunto dal 1968 che si battono per l’abolizione delle lingue antiche nelle scuole. Riscoprire Carlo Gozzi costituisce un evidente pericolo per loro, parlare di “rusteghi” in luogo di rustici rischia di valorizzare Goldoni. Ossia l’autore che da buon precursore nel gettar via le maschere, li ha previsionalmente descritti con un titolo che li rappresenta in pieno: servitori di due padroni. Un poco servono il potere politico, un altro poco le banche centrali. E l’istruzione è sempre un ostacolo al servilismo, specie se doppio.