di MATTEO CORSINI
Tra le (tante) critiche mosse a Donald Trump c’è quella di voler minare l’indipendenza della Federal Reserve. Secondo Trump, il presidente “dovrebbe poter dire la sua”. Anche perché “nel mio caso ho fatto un sacco di soldi, ho avuto molto successo e credo di aver un istinto migliore, in molti casi, delle persone della Fed o del loro presidente”.
Su Bloomberg Johnatan Levin stigmatizza Trump (assieme al candidato alla vice presidenza Vance), sostenendo che “il popolo americano non dovrebbe scegliere la politica sui tassi di interesse più di quanto non facciano i medici di se stessi, rappresentino se stessi nelle corti di giustizia e costruiscano i loro ponti. Ci sono cose che è meglio lasciare ai professionisti, e la storia dimostra che tra queste ci sono le politiche sui tassi di interesse”.
Lo stesso Levin riconosce poi che il presidente già nomina il capo della banca centrale e i membri del consiglio dei governatori. Non occorre essere complottisti per sospettare che si tratti di una “indipendenza” spesso solo di facciata, anche se con ogni probabilità la proposta di Trump peggiorerebbe le cose.
Detto che la sua storia personale include diversi debiti non pagati e una inevitabile tendenza, comune a tutti quelli che operano nell’immobiliare (settore a forte leva, come tra l’altro lo Stato), a ritenere qualsiasi livello di tassi di interesse sempre e comunque alto, ritengo la critica (mainstream) di Levin non condivisibile.
La politica monetaria non è né medicina, né ingegneria. E per lo meno un individuo, per quanto riguarda se stesso o le opere su ciò che è di sua proprietà, può scegliere se e a quale medico o ingegnere rivolgersi. Definire poi “golden era” gli ultimi 30 anni di politica monetaria, quando ci sono state bolle a ripetizione e relativi scoppi, nonché una progressiva dipendenza da liquidità indotta nel sistema proprio dalla Fed, mi pare allucinante.
La migliore risposta ai deliri trumpiani non consiste nel rivendicare l’indipendenza della Fed, ma nel proporre un serio ridimensionamento del suo ruolo, fino alla sua abolizione, quanto meno per ciò che riguarda le funzioni di politica monetaria.
Mi scuso per la tendenza a reiterare le mie preoccupazioni inerenti le professioni libere ogni volta che le vedo nominate; se risulto noiosamente maniacale segnalatemelo pure!
La critica di Levin, più che non condivisibile mi sembra pretestuosa perché, se è vero che un individuo “può scegliere se e a quale medico o ingegnere rivolgersi”, all’origine delle professioni libere ci dovrebbe essere anche la libera fruizione del parere professionale ottenuto: l’individuo (sovrano) chiede i pareri per prendere decisioni proprie e non delega queste decisioni (sulla propria pelle o proprietà) al professionista interpellato!
Oggi purtroppo l’ingannevole paragone di Levin può trovare estimatori perché questa condizione è seriamente compromessa da decenni di vincolanti incrementi normativi che rendono sempre meno significativa la differenza fra rivolgersi a un determinato professionista piuttosto che a un altro: entrambi seguono protocolli!
Sui tassi d’interesse, invece, il “popolo americano” – e tanto meno l’individuo o il popolo italiano – quella libertà di scelta non l’ha mai realmente avuta e non vedo come potrebbe dargliela Trump, o chiunque altro, potendo “dire la sua”. Forse il solo modo per dargliela sarebbe la libertà di scelta di usare dollari, talleri, ducati, dobloni. O Bitcoin; why not?