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Bruxelles contro roma, ovvero quando la lega tradisce sé stessa

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di ROBERTO M. SOSA

“Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Quindi ciò che avrete detto nelle tenebre sarà udito in piena luce, e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne sarà annunciato dalle terrazze” (Luca 12,2-3).

C’era una volta la Lega che combatteva Roma “spendacciona” e “ladrona”, che lottava contro statalismo e assistenzialismo. Quella Lega oggi non esiste più. Lo testimoniano le esternazioni ottobrine del Vice Presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno, Eurodeputato e Segretario Federale del Carroccio, Senatore Matteo Salvini, circa l’opportunità di raggiungere il deficit del 2,4% per realizzare i provvedimenti contenuti nella Nota di Aggiornamento al Decreto di Economia e Finanza (NADEF) 2018. A tal riguardo, il Capo dello Stato nella sua dichiarazione pubblica del 29 settembre scorso aveva ricordato un dato non secondario, ovvero che l’articolo 97 della Costituzione: “dispone che occorre assicurare l’equilibrio di bilancio e la sostenibilità del debito pubblico” [fonte: quirinale.it].

Abbiamo citato le parole della massima carica della Repubblica per motivare la frase con la quale abbiamo esordito. Era infatti il 18 aprile 2012 quando il Parlamento adottava la Legge Costituzionale n. 1/2012 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 23 aprile) intitolata Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale. Occupava Palazzo Chigi il Prof. Mario Monti. L’iter legislativo che avrebbe introdotto il vincolo del pareggio di bilancio aveva però la sua genesi nel precedente Governo, guidato da Silvio Berlusconi, con la Lega in qualità di alleata.

È in tale contesto, dunque, che andrebbe inquadrata la nascita, in primo luogo, di un disegno di legge costituzionale avente come finalità l’introduzione nella Costituzione italiana del principio di pareggio di bilancio, e in seconda battuta della relativa legge attuativa. Nel centro-destra due furono le figure chiave di tale operazione: il Prof. Giulio Tremonti, all’epoca ministro dell’Economia e delle Finanze, e l’On.le Giancarlo Giorgetti, in quel frangente presidente della 5a Commissione bilancio tesoro e programmazione della Camera. Il 7 luglio 2011, parlando da Roma all’Assemblea Nazionale della Coldiretti, il Prof. Tremonti aveva affermato: “Quella che stiamo vivendo […] non è una crisi di liquidità è una crisi di solvibilità […] Tutto l’Occidente è vissuto sopra le sue possibilità […] È finita l’età della spesa che viene fatta sopra il livello della produzione, la spesa deve riallinearsi a livello della produzione. Quello del pareggio di bilancio non è un obiettivo ragionieristico, è un obiettivo etico prima ancora che politico. Non puoi continuare a fare più debito di quello che puoi sostenere […] abbiamo il terzo Debito Pubblico del mondo […] ma non abbiamo la terza economia del mondo […] in realtà il problema non è l’Europa è che dobbiamo mettere a posto i conti” [fonte: RadioRadicale.it].

Il 27 novembre 2012 fu la volta di Giorgetti, che presentò un Disegno di Legge per l’attuazione della Legge Costituzionale approvata in aprile. Si trattava del DDL 3609 intitolato Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione. Il Parlamento approvò il DDL in tempi relativamente brevi: la Camera il 12 dicembre, il Senato il 20 di quello stesso mese. In tal modo il testo divenne (quasi come un regalo di Natale per tutti gli italiani) la Legge 24 dicembre 2012, n. 243, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 15 gennaio 2013. Si trattò di un provvedimento bipartisan: oltre al primo firmatario (Giorgetti) della Lega Nord, gli Onorevoli Lino Duilio del Partito Democratico (PD) e Alberto Giorgetti del Popolo della Libertà (PdL) furono i relatori. In votazione finale al Senato il “DDL Giorgetti” ottenne 222 voti favorevoli, tra cui quelli di PDL (87), Lega (19), PD (78), e solamente 4 contrari. Un particolare temporale suggerisce un indizio a favore dell’affermazione con la quale abbiamo esordito: il DDL di attuazione viene presentato dall’On.le Giorgetti il 27 novembre 2012. A quella data era in carica il Governo Monti; esecutivo considerato da populisti e (sedicenti) sovranisti come una delle dieci piaghe d’Egitto di biblica memoria.

Un secondo indizio è rappresentato dal più vasto àmbito comunitario dal quale è scaturito il principio del pareggio di bilancio: quello (cosiddetto) della nuova governance economica europea. Le Conclusioni del Consiglio Europeo del 24 e 25 marzo 2011, dando origine al “Patto euro plus”, avevano posto le basi consensuali per l’adozione delle clausole contenute nell’antico “Patto di stabilità e crescita” risalente al 1997, poi modificato nel 2005 e, in séguito alla crisi dei subprime scoppiata nel 2008, ulteriormente rafforzato con nuovi otto regolamenti comunitarî (i cosiddetti “six pack” e “two pack”) e un trattato internazionale. Quest’ultimo è l’accordo approvato il 2 marzo 2012 da venticinque Stati dell’Ue e ufficialmente intitolato Trattato sulla stabilità, coordinamento e governo nell’unione economica e monetaria, o come più mediaticamente noto, “Fiscal Compact”. L’accordo è formalmente entrato in vigore il 1° gennaio 2013 dopo che era stata rispettata la condizione secondo cui almeno dodici Stati dell’eurozona avessero provveduto ad approvarlo. Si tratta in sostanza di un provvedimento di salvaguardia (per la stabilità) della moneta unica troppo esposta, in assenza di una completa unione fiscale, alle turbolenze generate dai disavanzi pubblici dei singoli Stati.

Ecco perché il Presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, il 1° ottobre scorso aveva affermato: “Se l’Italia vuole un trattamento particolare supplementare, questo vorrebbe dire la fine dell’euro” [fonte: ANSA.it].

Uno scenario – considerata anche la situazione greca – che Juncker sembra includere nel novero delle possibilità, per via forse – si può supporre – dell’’“effetto domino” che un allentamento dei vincoli in Italia potrebbe generare anche in altri Paesi dell’eurozona. La clausola che interessa l’Italia è contenuta nell’articolo 3 del “Fiscal Compact” ove si fa menzione del limite dello 0,5% per il disavanzo strutturale in relazione al PIL di ogni singolo Paese dell’eurozona. Tale vincolo non si applica ai Paesi “virtuosi”, ovvero con un rapporto Debito Pubblico/PIL inferiore al 60%, per i quali è invece previsto un tetto dell’1%.

Considerato quanto sin qui descritto, le reazioni scomposte della Lega, dopo le obiezioni Ue alla prima bozza del NADEF, sembrano stridere con le convinzioni testimoniate negli ultimi anni da alcuni dei suoi principali esponenti, tra cui, appunto, Giancarlo Giorgetti, oggi Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel Governo populista e sovranista [sic] formato da Lega e Movimento 5 stelle. Già il 4 ottobre scorso l’Agenzia Giornalistica Italiana (AGI) – citando resoconti stenografici di Montecitorio – ricordava infatti che il 23 novembre 2011, in prima lettura alla Camera, Giorgetti aveva difeso il suo DDL attuativo con queste parole: “il pareggio di bilancio è funzionale […] ad assicurare il rispetto dei parametri europei in termini di deficit e di debito pubblico”. Ancora più chiara (era) la posizione di Giorgetti (ovvero della Lega) sul ruolo fondamentale dei mercati internazionali e dell’Ue: “occorre – sottolineò Giorgetti – dare un segnale politico forte ai mercati, chiarendo che l’Italia e l’Europa hanno imboccato in modo duraturo la strada del rigore. La costituzionalizzazione del principio dell’equilibrio di bilancio e il sostanziale divieto di indebitamento (…) è di per sé destinata a condizionare l’operato degli organi di Governo di ogni livello territoriale. La violazione di tale principio avrebbe senz’altro conseguenze a livello politico e di opinione pubblica, facilitando anche una pronta e ferma la reazione delle istituzioni europee”.

Anche in merito alla globalizzazione la postura (istituzionale) leghista era agli antipodi rispetto a quella che oggi (ad usum Delphini ?) sembra essere dominante. Lungi dall’essere la thalásses theríon anabainon della letteratura neotestamentaria giovannea, la globalizzazione era vista come un’opportunità da affrontare e gestire nell’agone della competizione internazionale. Il 5 marzo 2012, intervenendo alla Camera in occasione della votazione in seconda lettura del suo DDL, Giorgetti aveva infatti sostenuto che: “il risanamento e la stabilizzazione della finanza pubblica rappresentano la pre-condizione per consentire all’Italia di affrontare con successo gli scenari competitivi determinati dalla globalizzazione e di registrare tassi di crescita economica adeguati” [fonte: AGI].

Ben diversa appariva, dunque, la posizione leghista rispetto alle politiche Ue, tanto che Giorgetti riteneva di potere sottolineare con soddisfazione che quanto era stato scritto nella Commissione da lui presieduta fosse perfino coerente con le decisioni che poi sarebbero state adottate in sede europea. Sposando sornionamente la formula degli ossimori politici, la Lega vedeva nel provvedimento di attuazione costituzionale uno strumento legislativo per conseguire rigore e crescita. Assai interessante è pure quello che si poteva leggere il 12 dicembre 2012 sul sito Internet della Lega, ove si riportava la notizia del via libera alla Camera del pareggio in bilancio con questo titolo: Pareggio di bilancio: Giorgetti, testo in linea proposte Senato. Nel breve trafiletto si poteva leggere: << “L’approvazione all’unanimità, da parte dell’Assemblea della Camera della proposta di legge volta a dare attuazione al principio del pareggio di bilancio, rappresenta un punto di equilibrio che testimonia, in un momento particolarmente delicato dal punto di vista politico e istituzionale, il senso di responsabilità di tutte le forze politiche”. Lo dice Giancarlo Giorgetti, presidente della commissione Bilancio della Camera. “Il testo licenziato – aggiunge – tiene ampiamente conto delle proposte di legge presentate al Senato sulla stessa materia e delle osservazioni svolte dal rappresentante della Commissione europea nel corso di un’audizione parlamentare” >> [fonte: leganord.org].

Risulta curioso l’ultimo passaggio relativo all’audizione parlamentare di un “rappresentante della Commissione europea”. Nel Dossier n. 94/DN datato 16 aprile 2012 preparato dal Servizio Affari Internazionali del Senato della Repubblica (Ufficio per i Rapporti con le istituzioni dell’Unione europea) intitolato “Il Trattato sul fiscal compact” nella -iv- pagina alla nota (9) si può leggere: “Il 14 marzo 2012, in continuazione con il lavoro di approfondimento già svolto nel corso del negoziato sul fiscal compact, gli uffici di presidenza delle Commissioni 3a (Affari Esteri, emigrazione), 5a (Programmazione economica, bilancio) e 14a (Politiche dell’Unione europea) del Senato hanno proceduto all’audizione del dottor Marco Buti, direttore generale degli affari economici e monetari della Commissione europea. L’audizione ha avuto ad oggetto i principali temi del nuovo assetto della governance economica in via di definizione in sede europea, e, quindi: le regole già fissate dai regolamenti costituenti il c.d. six-pack (entrato in vigore il 13 dicembre 2011), i regolamenti costituenti il two-pack e, appunto, il fiscal compact”. Buti è Direttore Generale del Dipartimento Affari Economici e Finanziarî della Commissione Europea dal dicembre 2008. Nei suoi paper economici ama citare Gramsci e soprattutto Lord Dahrendorf. Nell’intervento del gennaio 2017, scritto a quattro mani con Karl Pichelmann, intitolato European integration and populism: addressing Dahrendorf’s quandary, Buti definiva il sociologo tedesco ma naturalizzato britannico come: “a major scholar of the XXth Century” (“uno dei massimi studiosi del XX secolo”).

Politicamente liberal (sebbene di iniziali simpatie socialiste) ed esponente della scuola sociologica conflittualista, Ralf Gustav Dahrendorf è noto in Italia soprattutto per il suo saggio Economic opportunity, civil society, and political liberty (1995), tradotto in italiano con il titolo Quadrare il cerchio ieri e oggi. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica. Già insignito del titolo di Knight Commander del Most Excellent Order of the British Empire nel 1982 e ottenuta la cittadinanza britannica nel 1988, Dahrendorf – che tra i numerosi incarichi fu anche direttore alla London School of Economics di Londra per un decennio dal 1974 al 1984 – per i suoi contributi alle scienze sociali venne creato (1993) Life Peer dalla Regina Elisabetta II con il titolo di Barone Dahrendorf of Clare Market in the City of Westminster. Lord Dahrendorf non fu però solo un teorico. Si dedicò infatti anche alla politica attiva, dapprima come membro del Bundestag della Repubblica Federale Tedesca, poi quale civil servant in seno alla Commissione europea, nella quale – tra il 1970 e il 1974 – ricoprì gli incarichi di Commissario per il Commercio, Commissario per le Relazioni Esterne e infine Commissario per la Ricerca, la Scienza e l’Educazione.

Del resto, e come ricordato in primis dal Prof. Monti all’interno del talk televisivo “8 e mezzo” l’8 ottobre scorso, l’adesione leghista allo spirito dell’Ue aveva già avuto modo di palesarsi in occasione della votazione, ovvero ratifica, del Trattato di Lisbona nel 2008, quando l’intera rappresentanza parlamentare leghista – di cui all’epoca Matteo Salvini faceva parte in qualità di Deputato per la circoscrizione III Lombardia 1 – approvò, pressoché all’unanimità, il testo. E il Trattato di Lisbona – giova forse ricordarlo – introdusse anche alcune modifiche importanti per la disciplina della politica economica e monetaria nell’Ue. La Banca Centrale Europea (BCE), infatti, fu formalmente inserita (art. 1,14, par. 1) tra gli organismi apicali dell’Unione europea, mentre la politica monetaria divenne competenza esclusiva dell’Ue (art. 2 B, par. 1, lett. c). Non solo, ma il Trattato di Lisbona, nella parte intitolata B. Protocolli da allegare al Trattato di Lisbona, nel “Protocollo 1” (art. 14, lett. a,b,c,d,e,f,g,h,i) trattava la modifica del precedente Protocollo n. 7 allegato al “Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea” (TFUE) intitolato Protocollo sui privilegi e sulle immunità dell’Unione europea, ove l’articolo 23 diveniva l’attuale art. 22, il quale, al comma secondo, recita:

“La Banca centrale europea sarà, inoltre, esente da qualsiasi forma fiscale e parafiscale al momento degli aumenti del suo capitale, nonché dalle varie formalità che tali operazioni potranno comportare nello Stato in cui ha la propria sede. L’attività della Banca e dei suoi organi, svolgentesi secondo le condizioni dello statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea, non darà luogo all’applicazione di tasse sulla cifra d’affari”.

Questa norma deve rappresentare certamente un assai ben gradito privilegio per i suoi beneficiarî (come recita il titolo stesso del Protocollo), soprattutto se si considera il livello di tassazione in alcuni Paesi Ue, a cominciare dall’Italia, ove proprio dal partito del ministro Salvini è scaturita l’idea di introdurre una “flat tax”. A sua volta, tale articolo si ricollega ad una disposizione del Protocollo sullo “Statuto del Sistema Europeo di Banche Centrali e della Banca Centrale Europea”, ovvero l’articolo 32 intitolato Distribuzione del reddito monetario delle Banche centrali nazionali, che recita:

“Fatto salvo l’articolo 32.3, l’importo del reddito monetario di ciascuna banca centrale nazionale è pari al reddito annuo che essa ottiene dagli attivi detenuti in contropartita delle banconote in circolazione e dei depositi costituiti dagli enti creditizi. Questi attivi sono accantonati dalle banche centrali nazionali in conformità degli indirizzi determinati dal consiglio direttivo” (32.2).

E ancora, (32.5):

“La somma dei redditi monetari delle banche centrali nazionali viene ripartita tra le stesse in proporzione alle quote versate di capitale della BCE, fatta salva qualsiasi decisione presa dal consiglio direttivo in conformità all’articolo 33.2”.

Il successivo articolo 33, intitolato Ripartizione dei profitti e delle perdite netti della BCE, specifica (33.1., lett. a, b):

“Il profitto netto della BCE deve essere trasferito nell’ordine seguente: […] un importo stabilito dal Consiglio direttivo, che non può superare il 20% del profitto netto, viene trasferito al fondo di riserva generale entro un limite pari al 100% del capitale; […] il rimanente profitto netto viene distribuito ai detentori di quote della BCE in proporzione alle quote sottoscritte”.

Chi volesse, oggi, prendersi la briga di conoscere chi furono i firmatarî del Protocollo sui privilegi e le immunità dell’Unione europea, rimarrebbe deluso, perché proprio una clausola (Parte B, Prot. 1, art. 14, lett. i) introdotta dal Trattato di Lisbona ha modificato quella parte con la seguente formula:

“[…] la formula finale << IN FEDE DI CHE, i plenipotenziari sottoscritti hanno apposto le loro firme al presente protocollo >>, la data e l’elenco dei firmatari sono soppressi”.

Peraltro, le bocciature della Banca d’Italia e dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio al NADEF hanno ricevuto una reazione tiepida da parte del ministro dell’Interno, fatto che lascia un poco perplessi se si considera che tale reazione viene da un leader politico che si proclama portabandiera del sovranismo. Il 9 ottobre, infatti, a margine del G6 di Lione dei ministri degli Affari Interni, il Senatore Salvini, in risposta a chi gli chiedeva cosa farebbe il Governo se lo spread dovesse continuare a salire, ha affermato che: “La forza dell’Italia […] è un risparmio privato che non ha eguali nel mondo. Per il momento è silenzioso e viene investito in titoli stranieri. Io sono convinto che gli italiani siano pronti a darci una mano” [fonte: ANSA.it].

Certamente, considerate anche alcune recenti dichiarazioni di Salvini circa la volontà di non abbandonare l’eurozona, non ci si poteva aspettare un ritorno alla stampa di biglietti di Stato. In questo senso la politica monetaria del ministro Salvini appare – al di là delle pose populiste ad usum militanti (?) – in linea con quanto deciso dal ceto politico italiano negli ultimi trent’anni, a cominciare dal carteggio Andreatta-Ciampi del febbraio-marzo 1981, per mezzo del quale l’allora ministro del Tesoro e il Governatore di Bankitalia decisero, concordemente, di abbandonare la prassi, adottata con deliberazione del 23 gennaio 1975 dal Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio, che impegnava Palazzo Koch ad acquistare i BOT residui – ovvero non allocati in sede d’asta – come meccanismo di compensazione per il fabbisogno finanziario italiano.

Quel “divorzio” (come fu ed è ancora oggi chiamato) fra Tesoro e Banca d’Italia costituì una tappa cruciale in quel processo di progressiva estromissione della classe dirigente politica italiana dai meccanismi di creazione e gestione dei flussi monetarî e finanziarî, a cui nel 1986 seguì l’abbandono definitivo dell’obbligo del vincolo di portafoglio per gli istituti bancarî italiani. Verso la fine degli anni Ottanta quest’ultimo tema sembrò destinato a tornare in auge soprattutto per via di un dibattito sorto in seno al Governo Andreotti VI. Sopra tutti, ci pensò l’allora ministro del Tesoro, Guido Carli (ex Governatore della Banca d’Italia), ad escludere un ritorno all’antico dopo l’unanime levata di scudi di alcuni enfants prodige dell’economia italiana: Giacomo Vaciago, Mario Monti, a cui si aggiungeva, in qualità di decano, Luigi Spaventa (già Deputato del PCI, poi presidente della Consob, infine del Consiglio di sorveglianza di MTS Group e presidente del fondo Sator [Private Equity] di Matteo Arpe).

Un terzo, significativo, passaggio si consumò a partire dagli anni Novanta con l’abrogazione della Legge bancaria del 1936 che, recependo indicazioni già presenti nella riforma bancaria del 1926, aveva posto fine al modello (cosiddetto) della banca mista. Si trattava di provvedimenti avviati con il D.P.R. 27 giugno 1985 n. 350 e culminati nella cosiddetta “Legge Amato” (legge 30 luglio 1990 n. 218) all’interno del più vasto quadro di recepimento anche in Italia – di due direttive bancarie europeo-comunitarie: la 1a direttiva CEE di coordinamento sull’accesso all’attività degli enti creditizi e il suo esercizio 77/780 del 12 dicembre 1977 e la 2a direttiva CEE di coordinamento bancario 89/646 del 15 dicembre 1989. Da questo punto di vista – come illustrato nella Collana Storia della Banca d’Italia vol. XI – si può sostenere che: “Sul fronte propriamente bancario, la storia dell’ultimo quarto dello scorso secolo coincide essenzialmente con la costruzione del mercato unico europeo […]. Le esigenze di adeguamento al contesto comunitario operano sia direttamente e formalmente (recepimento di direttive) che indirettamente, per un meccanismo di competizione fra ordinamenti che rende necessario l’ammodernamento delle leggi nazionali: è questo il caso, ad es., della privatizzazione della forma giuridica delle banche pubbliche […] attuata agli inizi degli anni Novanta o della privatizzazione dei mercati (realizzata a metà degli anni Novanta) […] Da un certo punto in poi a questo processo si affianca quello di costruzione della moneta unica, con evidenti interazioni e sinergie fra i due percorsi” [pag. 142].

Lungo questa falsariga, dunque, si può legittimamente sostenere che sia il voto favorevole di Salvini al Trattato di Lisbona nel 2008 sia il “DDL Giorgetti” del 2012 possano essere inseriti nello stesso solco tracciato a partire dal “divorzio Tesoro-Banca d’Italia” del 1981 e continuato nei decenni sino alla “Legge Amato” del 1990, dimostrando come l’adeguamento alle direttive Ue in fatto di unione monetaria abbia fattualmente interessato in egual misura le diverse forze politiche italiane, al di là dei meri slogan politico-propagandistici. Persino rispetto alle stime negative delle agenzie di rating nei confronti dell’Italia il ministro Salvini non sembra avere mostrato una risposta che possa definirsi adeguata ad un governo sovranista, benché su questo tema ci siano argomenti assai validi, a cominciare da criticità che potrebbero essere ricondotte alla proprietà delle “tre grandi”: Moody’s, Fitch, Standard&Poor’s. La prima appartiene infatti al finanziere statunitense Warren Buffett, la seconda al finanziere francese Marc Ladreit de Lacharrière, la terza al gruppo McGraw-Hill di cui fanno parte – tra gli altri – Goldman Sachs, Deutsche Bank, Mellon Financial Group, Vanguard Group [fonte: transnationale.org].

Prima di congedarci, chiudiamo questo affresco tornando ai mesi in cui era in discussione il “DDL Giorgetti” sul pareggio di bilancio. Nel Dossier del Senato sopra citato possiamo leggere: “Il 19 gennaio 2012, il Ministro per gli affari europei, Enzo Moavero Milanesi, ha reso Comunicazioni sul fiscal compact alle competenti Commissioni di Senato e Camera, illustrando il contesto del negoziato, anche alla luce degli incontri avuti con i leader europei del Presidente del Consiglio e delle priorità della delegazione italiana. Queste priorità sono state: la necessità di integrare il fiscal compact, al più presto, entro l’ordinamento dell’Unione europea; il contenimento degli elementi di maggiore rigidità valutativa, soprattutto con riferimento al criterio del debito; il sostegno a misure volte a promuovere la crescita e la competitività, soprattutto con riferimento al mercato interno. Su tale ultimo aspetto, peraltro, la delegazione italiana ha preferito non insistere per una più precisa articolazione di tali misure all’interno del fiscal compact, ritenendo preferibile invece che fosse il Consiglio europeo – quindi, nel contesto giuridico dell’Unione – a fornire orientamenti a riguardo”.

Acta est fabula.

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