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Cattolici per il capitalismo: un vero credente non può amare il potere dello Stato

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di DAMIANO MONDINI

E’ un luogo comune diffuso quello secondo il quale il pensiero cristiano – e segnatamente quello cattolico – dovrebbe porsi inevitabilmente in contrasto con l’economia di mercato, e per il quale d’altro canto il messaggio evangelico presenterebbe numerosi punti di contatto con le sollecitazioni socialiste.

I riferimenti in questi senso sono molteplici, essendosi ormai accumulati due secoli di interpretazioni gauchistes del Vangelo: da Le nouveau christianisme del conte di Saint-Simon (1825), alle esperienze dei “Cristiani per il socialismo” e della “Teologia della Liberazione” nel Sud America degli anni Settanta, alle figure del cattolicesimo democratico italiano – basti menzionare Giuseppe Dossetti e Amintore Fanfani. Fautori e detrattori del capitalismo di mercato sembrano ormai concordare su di un punto, ovverossia che “il Vangelo è socialista”: il buon cristiano dovrebbe dunque guardare con sospetto ai “gran sabba degli istinti capitalistici” e propendere per una loro ferrea regolamentazione in chiave redistributiva e solidaristica; d’altra parte, i sostenitori del libero mercato e della libera iniziativa privata dovrebbero fuggire le superstizioni religiose del cristianesimo, considerandole l’ennesima riproposizione del ben noto e odiato spirito anticapitalistico.

Ciò premesso, ci riproponiamo in questa sede di avanzare delle critiche a questi leit motiv – osservazioni che naturalmente non pretendono di essere definitive, né tanto meno di esaurire un dibattito acceso e tutt’altro che concluso a livello accademico. Saranno sufficienti alcune evidenze fattuali, cui accenniamo ora e che andremo poi a sviluppare, a far sospettare che dietro la semplice impostazione suddetta vi siano quanto meno delle linee di faglia.

Innanzitutto, non può essere ignorata la tesi – avanzata fra i più noti da Karl Marx e Werner Sombart – per cui una manifestazione particolare della religione cristiana, la sua derivazione protestante, sarebbe il prodotto dell’affermarsi del modo di produzione capitalistico. Sul fronte opposto si colloca la celebre e discussa argomentazione di Max Weber, per la quale sarebbe lo “spirito del capitalismo” ad essere il portato storico dell’affermarsi della Riforma luterana e calvinista. Infine, dovrà essere adeguatamente analizzata quella posizione – di cui si sono fatti portavoce gli esponenti della Seconda Scolastica spagnola, diversi economisti di Scuola Austriaca e lo stesso san Josemarìa Escrivà de Balaguer – secondo cui il cattolicesimo avrebbe elaborato una propria etica del mercato e del lavoro, eterogenea a quella protestante, la quale avrebbe avuto un ruolo storico di primaria importanza e avrebbe prodotto un capitalismo alternativo a quello moderno ed industriale figlio delle sette riformate.

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

E’ risaputo cosa il filosofo di Treviri pensasse della religione: essa era per Marx “l’oppio dei popoli”, una potente ideologia in grado di ottundere i sensi dei membri della classe sfruttata e di corroborare così il loro sfruttamento da parte della classe dominante. La lettura materialistica della storia condusse Marx a considerare ogni sovrastruttura ideologica il portato della struttura economica: in questo modo la religione si configurava come un prodotto di un determinato modo di produzione atto a reiterarne il dominio.

Per quanto concerne il modo di produzione capitalistico caratterizzante la modernità, esso aveva dato luogo ad un credo religioso particolarmente adatto a sorreggerlo, quello protestante. Questa lettura marxiana – al di là della sua correttezza, di cui come vedremo è lecito dubitare – rende subito evidente un dato, ovverossia che il fenomeno economico e quello religioso non sono per nulla eterogenei, essendo anzi in simbiosi. Ancor di più, l’analisi di Marx testimonia come non vi sia affatto opposizione ideologica fra le istanze del capitalismo industriale e quelle del cristianesimo protestante, essendo il secondo conseguenza del primo. Marx rileva correttamente come gli insegnamenti protestanti siano in perfetta sintonia con le esigenze del nascente capitalismo moderno, dimostrando che – almeno nella prospettiva del cristianesimo riformato – il Vangelo non propone dottrine in se stesse contrastanti l’economia di mercato.
Ciò nondimeno, non è Marx l’autore cui ci si riferisce solitamente per testimoniare la relazione causale fra capitalismo e protestantesimo: al contrario, l’intellettuale di riferimento è proprio colui che ha scritto che il rapporto causale è in ogni caso l’inverso di quello che si dovrebbe postulare dal punto di vista “materialistico”. Ma la giovinezza di tali idee è sempre più ricca di spine di quanto non suppongano i teorici della “sovrastruttura”, e il loro sviluppo non si compie mai come quello di un fiore.

Si tratta naturalmente del Max Weber de Die protestantische Ethik und der Geist des Kapitalismus (1904-1905). Com’è noto, Weber riteneva che fosse la fede protestante causa diretta dell’affermarsi dello “spirito del capitalismo”; quest’ultimo, nella definizione weberiana, consiste in una mentalità che assegna un valore etico positivo all’attività economica distinguendola dal mero desiderio di denaro (la auri sacra fames); che esercita la professione con il sentimento di compiere un dovere morale; che adotta un atteggiamento dinamico, creativo e responsabile per cui è disposto a lavorare in modo indefesso, ad assumere dei rischi, a fare delle ricerche per migliorare quanto più possibile la sua attività ed anche a guadagnare e a produrre sempre di più.

Weber si sarebbe trovato d’accordo con le parole del cattolico liberale Lord Acton, per il quale la religione era “la chiave della Storia”; avrebbe anche condiviso con Keynes e Hayek la convinzione per cui Ideas have consequences – sono  le idee ad avere conseguenze, non tanto i sistemi produttivi come riteneva Marx. Per il sociologo tedesco non soltanto le regole sociali non sarebbero il precipitato dei modi di produzione, ma sarebbe anzi vero l’esatto contrario. Non è questa la sede per entrare nello specifico dell’analisi weberiana delle dottrine del Beruf, dell’ascesi intramondana e della predestinazione, e del modo in cui queste avrebbero avuto l’effetto non intenzionale di dare vita al capitalismo industriale moderno. Siano sufficienti alcuni brevi cenni. Per il protestante – ed in modo precipuo per il calvinista ed il puritano – il lavoro si poneva come un dovere morale mediante cui glorificare Dio per la grazia ricevuta; di più, il successo professionale era il segno evidente della predestinazione alla salvezza eterna, mentre l’insuccesso e la devianza conseguente testimoniavano la propria dannazione, secondo la volontà imperscrutabile e arbitraria del Signore.

Sola fide, sola gratia aveva scritto Lutero: non le opere buone avrebbero salvato la propria anima, non la redenzione dei peccati o i sacramenti spuri del cattolicesimo romano; solo la fede e la grazia avrebbero condotto l’uomo alla salvezza eterna. Calvino era stato finanche più radicale, rescindendo qualsivoglia legame con le “superstizioni magiche” del cattolicesimo: il Dio calvinista aveva già deciso il destino di ognuno, indipendentemente dalla condotta di vita terrena, senza alcun riferimento a criteri umani di giustizia e senza possibilità di redimersi con il perdono; all’uomo era data nondimeno la facoltà di conoscere – per quanto possibile – la propria sorte, e ciò attraverso il successo lavorativo. Portare il fedele ad assumere una “condotta di vita razionale” che rendeva il lavoro, il guadagno e il reinvestimento dei fini in se stessi, e non dei mezzi per soddisfare i propri bisogni: questa era stata la conseguenza inintenzionale del credo calvinista, che aveva creato terreno fertile per il sorgere dello “spirito del capitalismo”. Weber non testimonia soltanto la correlazione strettissima fra capitalismo e  protestantesimo: delinea altresì un ben preciso modello economico, culturale ed istituzionale, quello del capitalismo precipuo dell’Occidente moderno: una realtà affermatasi nell’Inghilterra della rivoluzione industriale, nelle aree tedesche a più densa presenza protestante e negli Stati Uniti del Nord – quel New England puritano ed industrializzato che aveva sempre fatto da contraltare al Sud anglicano e rurale. Weber suggerisce una tesi forse ancora più interessante: che questo idealtipico “spirito del capitalismo”, proprio perché prodotto del protestantesimo, sia in contrasto con l’etica cattolica e da questa avversato.

Torniamo dunque circolarmente alla tesi con cui avevamo esordito: se infatti il cattolicesimo si colloca agli antipodi della moderna economia di mercato, è facile accostarne il messaggio a quell’impostazione socialista che nasce col dichiarato intento di superare dialetticamente il capitalismo. A prima vista parrebbe contraddittorio ritenere che il Vangelo sia socialista solo per i cattolici e non per i protestanti. In effetti fra le più poderose conseguenze dalla Riforma vi fu la polverizzazione dell’esegesi biblica: Lutero aveva insistito affinché fosse estirpata l’intermediazione ecclesiastica, che nel cattolicesimo accompagnava i fedeli nella lettura delle Sacre Scritture. La ragione del proliferare delle più disparate sette protestanti nei secoli sta proprio nella dottrina del “libero esame” della Bibbia che fu un cardine del credo riformato – anche se non è chiaro come potessero convivere in Lutero il “libero esame” ed il “servo arbitrio”; e d’altro canto l’affermarsi del luteranesimo e del calvinismo non produsse esperimenti politici particolarmente liberali. In breve, se ogni fedele deve essere libero di leggere ed interpretare autonomamente la Parola di Dio, la funzione del clero diventa marginale, se non inutile in se stessa: questo potrebbe d’altra parte mettere in luce il ruolo avuto dal protestantesimo nel processi di secolarizzazione e di progressivo distacco dalle convinzioni religiose che hanno accompagnato la modernità.

Ciò che tuttavia è rilevante ai fini della nostra analisi è la profonda divergenza interpretativa del messaggio evangelico che intercorre fra cattolicesimo e cristianesimo riformato. Pare significativo a chi scrive che siano sovente gli stessi intellettuali che condividono l’impostazione weberiana a sostenere i due seguenti corollari: in primo luogo, che vi sia nel capitalismo moderno qualcosa di intrinsecamente sbagliato che necessita di essere superato – se non proprio rivoluzionato dalle fondamenta in un’ottica socialista. In secondo luogo, che come accennato poc’anzi l’etica cattolica sia in se stessa anticapitalistica, quando non del tutto antimodernista; il dibattito si porrebbe semmai fra i cattolici di sinistra – che parteggiano per un cattolicesimo anticapitalista ma progressista – e gli anticlericali di sinistra – che condannano in egual misura religione ed economia di mercato. La diatriba sul tema è in realtà molto più ampia e sofferta. Il professor Carlo Lottieri, docente di Dottrina dello Stato presso l’Università di Siena, riassume così i due principali punti di vista contrapposti del panorama accademico mainstream: “Uno cattolico, antimoderno e avverso al capitalismo (in nome di logiche comunitariste e solidariste); e uno favorevole alla Riforma, alla modernità e al capitalismo (magari solo come “tappa”, in senso hegelo-marxiano, verso una sua cancellazione e sostituzione), e per questo risolutamente anti-cattolico”.

Questa impostazione appare nondimeno fuorviante quando ci si confronta con un’interpretazione alternativa del cattolicesimo medesimo, che si pone in un’ottica estremamente favorevole al libero mercato, ostile ad una modernità di cui il laicismo e lo statalismo sono i caratteri più marcati, ed altrettanto in contrasto con quel “Geist des Kapitalismus” che per Weber anima lo sviluppo dell’Occidente industrializzato.

Un capitalismo cattolico: prospettive di studio

I primi a rilevare incongruenze nella ricostruzione weberiana furono gli storici; essi si limitarono a constatare un dato, di per sé ovvio ma fondamentale, noto allo stesso Weber ma da questi stranamente reputato secondario: ovverossia che forme di capitalismo mercantile si erano sviluppate nelle città libere italiane già nel Tardo Medioevo, ed erano attecchite anche in altre aree tipicamente cattoliche come il Belgio e la Bassa Renania. E tutto ciò ben prima che Lutero affiggesse le sue 95 Tesi sulla Cattedrale di Wittemberg. Come ha scritto Luciano Pellicani, riprendendo uno spunto del grande sociologo francese Raymond Boudon: “Sia il capitalismo che lo spirito capitalistico precedono, e di secoli, la Riforma. Basterebbe ciò per invalidare la complessa costruzione weberiana, dal momento che un fenomeno non può essere assunto come una delle cause di un altro fenomeno se questo è successivo”.

Weber non solo aveva rischiato di cadere nella banalità per cui post hoc ergo propter hoc – prima era venuta la Riforma poi il capitalismo industriale, dunque la prima aveva causato il secondo. Aveva finanche falsato i termini del sillogismo: un evento successivo non può dirsi causa di un fenomeno ad esso precedente. E non si pensi che il capitalismo pre-Riforma fosse una realtà minoritaria e di scarsa importanza, come sembra volerlo considerare il sociologo tedesco: basti pensare alla straordinaria importanza dei Fugger ad Augusta e di Jacques Coeur in Francia. Furono figure imprenditoriali notevoli, che con i loro investimenti di capitali contribuirono a mettere in crisi i monopoli feudali legati alle regolamentazione delle arti e dei mestieri. Nel pieno solco della tradizione cattolica essi superarono il pregiudizio medievale legato alla nota sentenza di Girolamo, il quale con tali parole si era riferito alla figura del mercante: homo mercator vix aut numquam potest Deo placere.

E’ così che, in totale disaccordo con la prospettiva weberiana ormai assunta a canone ermeneutico dominante, taluni studiosi hanno riproposto con forza il tema delle origini cattoliche dell’economia di libero mercato. Essi evidenziano correttamente come in realtà essa avesse iniziato a fiorire non già nei paesi di lingua e cultura anglosassone e di credo riformato nel XVI secolo, bensì nei floridi e attivissimi comuni italiani, con una popolazione quasi esclusivamente cattolica, nel XIV secolo.

Paolo Zanotto riporta a tal proposito un interessante aneddoto: “[…] era proprio in un libro contabile fiorentino, risalente al 1253, che si poteva trovare espresso un primo esempio della classica formula proto-capitalistica: «In nome di Dio e del profitto»”.

Fondamentale per questi studi fu l’apporto della Scuola Austriaca di economia a partire dagli anni cinquanta del Novecento. In modo particolare Friedrich von Hayek lesse nel settimo comandamento – “Non rubare” – una fondamentale misura per proteggere la proprietà privata, e dunque l’individuo e il pieno sviluppo delle sue potenzialità; già ci si è espressi sulla siderale distanza fra il Vangelo e le istanze socialiste, ma ci si tornerà alla fine. Un’allieva di Hayek, Marjorie Grice-Hutchinson, pubblicò nel 1952 un saggio intitolato The School of Salamanca, laddove indicò  nei teologi della Seconda Scolastica spagnola cinquecentesca – si pensi a Louis de Molina e Doctor Navarrus – i veri artefici dei presupposti teorici  del libero mercato. Emil Kauder capovolse e confutò le teorie weberiane su fondamenta squisitamente economiche, legate in modo precipuo alle leggi fondamentali elaborate dalla Scuola Austriaca. Joseph Schumpeter, nella sua celebre e monumentale History of Economic Analysis pubblicata postuma nel 1954, criticò con forza la vulgata di una “scienza economica” esclusivamente moderna – sviluppata quasi ex novo nel XVIII secolo da David Hume e Adam Smith su di un’impalcatura filosofica liberale: si tratta di un luogo comune assai diffuso, ancorché infondato.

Per ritrovare i primi passi autentici e preziosi della scienza economica bisognava in realtà rifarsi ai teologi scolastici come i francescani Pierre de Jean Olivi, provenzale, e Bernardino degli Albizzeschi, senese: entrambi si distinsero per un’analisi limpida della figura imprenditoriale nel suo ruolo centrale di attore creativo e di propulsore del processo di mercato – anticipando in qualche modo l’analisi dell’imprenditorialità di Israel Kirzner.

La figura di Olivi gioca un ruolo miliare anche nella poderosa rilettura “austriaca” della storia del pensiero economico dell’economista newyorkese Murray N. Rothbard, allievo di Ludwig von Mises ed esponente del più adamantino pensiero liberale americano. Nella sua opera accademica più importante, An Austrian Perspective on the History of Economic Thought, Rothbard individua nei suddetti scolastici e nelle figure della neoscolastica spagnola del Siglo de Oro i veri antesignani del marginalismo austriaco: costoro adottavano generalmente prospettive analitiche assimilabili al moderno “individualismo metodologico” di cui gli austriaci furono i più fedeli portavoce; essi ponevano inoltre in risalto la teoria dell’utilità – prodromica alla law of marginal utility (legge dell’utilità marginale) codificata negli anni 1870 da Jevons, Menger e Walras -, la sovranità dei consumatori e la fondamentale importanza dei prezzi di mercato. E’ bene ribadirlo: essi precorsero con nitidezza le leggi economiche successivamente elaborate dai marginalisti; non anticiparono tuttavia lo spirito capitalistico tout court. Ha certamente ragione Sombart quando scrive, riferendosi ai moralisti cattolici del Tardo Medioevo – “un secolo che significava già l’alba dei tempi nuovi” almeno in Italia: [Essi] stanno di fronte al capitalismo con un bagaglio di cognizioni infinitamente maggiore e con infinitamente maggiore simpatia  degli zelanti araldi del puritanesimo del diciassettesimo secolo.

Questa eterogeneità fra capitalismo cattolico e capitalismo protestante risulterà certamente più chiara quando avremo velocemente delineato i fondamenti del primo; nondimeno, si tratta di un dato fondamentale, che porta Zanotto a quest’affermazione perentoria: “Le principali caratteristiche della Scuola Austriaca l’hanno sovente contrapposta, in maniera netta e decisa, al sistema capitalistico, così come delineatosi nel mondo occidentale dopo la rivoluzione industriale, e alla stessa free market economy, così come essa viene propugnata da parte della Scuola neoclassica”.

Un importante economista di Scuola Austriaca, lo spagnolo Jesùs Huerta de Soto – fautore di questa “via latina e cattolica al capitalismo” – si dimostra ancora più duro nei confronti dei “compagni che sbagliano” di Chicago: “I teorici della Scuola di Chicago centrano la propria analisi nello studio dell’equilibrio, utilizzando una metodologia ultraempirica che si basa sullo studio delle scienze matematiche. In ultima istanza sono solo degli ingegneri sociali che credono di poter manipolare le istituzioni e i processi sociali a proprio piacimento. Per questo motivo – e a prescindere dal fatto che il loro obiettivo dichiarato sia quello di promuovere l’economia di mercato – finiscono per fornire su un piatto d’argento argomenti importanti agli interventisti di ogni sorta. In effetti, la massimizzazione del comportamento che essi considerano il centro della teoria economica, applicata ai differenti ambiti della problematica sociale, altro non genera se non un processo di crescente interventismo statale che ogni liberale sincero e autentico dovrebbe ricusare”. Insomma, i teorici di Chicago sono colpevoli di quel positivismo scientista che von Hayek tanto criticò e che nel XX secolo ha prodotto fallimenti clamorosi.

Prima di considerare le affermazioni di Huerta de Soto una semplice boutade – anche se è certamente insolito riferirsi ai “liberisti” di Chicago come a degli irriducibili statalisti -, è bene chiarire che i termini della questione vanno ben al di là della semplice delimitazione del ruolo dell’intervento pubblico, che gli chicagoan vorrebbero in certi settori più presente rispetto agli austriaci. La questione di fondo è in primo luogo metodologica – prasseologia di Vienna contro positivismo di Chicago -, e in seconda istanza è il precipitato di divergenti prospettive religiose, ancorché velate dal carattere “secolare” dell’analisi economica. Siamo insomma di fronte a due modelli ben distinti di capitalismo, uno intimamente cattolico e l’altro fondamentalmente puritano.

Lavoro, valore e mercato

E’ necessario comprendere almeno a grandi linee le determinanti fondamentali della dottrina cattolica del mercato. Cominciamo dalla variabile assolutamente centrale del lavoro. Weber aveva sostenuto che – al contrario di quanto avveniva nel protestantesimo – il cattolicesimo conducesse ad una svalutazione del lavoro a vantaggio di una vita contemplativa e dell’ideale di ascesi ultramondana. San Escrivà, fondatore dell’Opus Dei (Prelatura Personale della Chiesa Cattolica), dimostra che le cose stanno in modo profondamente diverso. Innanzitutto, il cattolicesimo si fonda sul valore imprescindibile delle opere, depauperate invece dal credo riformato. Ebbene, il lavoro si configura come l’opera buona per eccellenza, la cui bontà è determinata dal desiderio del fedele di glorificare Dio attraverso di esso. “Dio ama gli avverbi. Non gli interessa che tu faccia grandi cose, ma che le faccia bene”. La centralità del lavoro nell’etica cattolica è dunque subordinata al compimento del bene e al rifiuto del peccato: non assurge dunque a fine per se stesso come nel protestantesimo, soprattutto nella sua versione secolarizzata. Nell’ottica cattolica, il lavoro è soltanto un mezzo mediante cui soddisfare bisogni personali, e non diviene come nelle disparate sette protestanti un fine ultimo insieme al guadagno e al risparmio – come invece testimonia la “professione di fede degli Yankee”, il decalogo del puritano Benjamin Franklin in cui si può leggere il celebre motto “il tempo è denaro”.  Ciò  dimostra che l’eterogeneità nella valutazione dell’importanza pratica dell’attività professionale rilevata da Weber fra cattolici e protestanti è nella migliore delle ipotesi un’esagerazione.

Si appalesa anche il senso della più importante dottrina economica elaborata dalla sensibilità riformata, la teoria del valore-lavorola labour theory of value. Rothbard rileva con forza la profonda distanza riguardo al “problema del valore” fra autori cattolici ed economisti protestanti. Il francescano Olivi (XIII secolo) era stato come detto grande anticipatore della marginal revolution degli anni 1870: egli aveva colto il carattere eminentemente soggettivo della determinazione del valore e del prezzo. Tre erano per il provenzale le determinanti del valore di un bene: raritas (scarsità sul lato dell’offerta), complacibilitas (capacità di soddisfare le esigenze soggettive sul lato della domanda) e virtuositas (le sue qualità intrinseche, determinate anch’esse in ultima istanza da valutazioni soggettive). L’apertura del domenicano alle dinamiche di mercato era totale, cogliendo peraltro l’essenza stessa della libertà economica: la volontarietà della scelta individuale. Al contrario, fu merito esclusivo del presbiteriano Adam Smith – profondamente influenzato dall’etica calvinista – quello di introdurre la teoria del valore-lavoro nell’analisi economica: e sono note le conseguenze nefaste dell’affermarmazione incontrastata di questo devastante paradigma, superato appunto solo grazie al marginalismo di fine Ottocento.

Da una parte si pongono insomma i caratteri preminenti dello spirito del capitalismo protestante: la condotta di vita razionale, i mezzi elevati a fini, la sostanziale sacralizzazione del lavoro e del guadagno – ma “voi non potete servire Dio e Mammona”, aveva detto il Vangelo -, la cupa rigidità dell’azione e  il generale pessimismo che gravita attorno alla mentalità dei fedeli protestanti. A ciò fa da contraltare un’etica cattolica che esalta il lavoro come opera di bene e che delimita nettamente i confini fra il bene e il male – legando al primo il rispetto sacrale della persona, della vita e della proprietà altrui (neminem laedere), come ebbe a ribadire il liberale cattolico Antonio Rosmini, e al secondo l’aggressione, il furto, in generale l’offesa alla dignità dell’Altro inteso come individuo portatore di diritti inalienabili poiché naturali e derivanti da Dio. Il confronto fra questi due mondi è dunque estremamente sofferto e problematico.

Socialismo, cultura cattolica e protestantesimo liberale

In questo breve scritto si è tentato di incrociare fra loro ragnatele concettuali estremamente complesse ed intricate: si è parlato dell’intersezione fra etica protestante e spirito del capitalismo, si sono accennate divergenze dottrinarie di grande rilevanza fra protestantesimo e cattolicesimo, si è infine confrontato l’elemento religioso – cristiano in senso lato – con le sue derivazioni politiche, liberali e pro-mercato ovvero socialiste ed anticapitaliste. Ci si è inseriti con modestia – e a ragion veduta – in vasti dibattiti intellettuali che toccano la religione, l’economia, la filosofia e la politica. Questa conclusione vorrebbe puntualizzare alcuni riferimenti che si ritiene di aver guadagnato.

Paolo Luca Bernardini condensa una grande verità con un’agile espressione: sorry, ma il Vangelo non è socialista. Le analisi filologiche, le considerazioni filosofiche e i rilievi teologici più accorti sono piuttosto unanimi nel denunciare gli abusi del messaggio evangelico compiuti dalle più disparate prospettive catto-comuniste. La Parola di Dio – ed in modo precipuo il credo neotestamentario – incarna al contrario la quintessenza della dignità dell’uomo, della sua libertà e autonomia rispetto al potere civile. L’economia libera – l’idea più cristallina di libero mercato, ossia di un ordine sociale ed economico scevro dalla coercizione statale, dal dominio dell’uomo pubblico sull’uomo privato – trova nelle Sacre Scritture, nel testo fondativo della tradizione cristiana, uno fra i suoi più strenui difensori. Nicolàs Gòmez Dàvila lo scrive in modo adamantino: “Il dialogo tra comunisti e cattolici è diventato possibile da quando i comunisti falsificano Marx e i cattolici Cristo”.

Come commenta il professor Lottieri, in questa prospettiva, il cattocomunismo è un marxismo dimentico di Marx e un cristianesimo svuotato, in cui la salvezza è immanente, l’individuo è annullato nella massa collettiva, la carità inutile, lo Stato onnipotente. […] se l’altro deve essere oggetto di amore e rispetto, non c’è spazio per la violenza del potere, per le logiche dell’esproprio, per il cinismo dell’intimidazione”.

E’ sempre Gòmez Dàvila ad affermare che “il potere non corrompe: libera la corruzione latente”. All’origine, insomma, c’è sempre e solo la libertà umana, sospesa tra il bene e il male. Ma questa esplosione del negativo coincide con il trionfo dello Stato. I cristiani non possono ignorarlo.

Un vero credente non può dunque amare il potere dello Stato, la sua violenza, la pervicacia delle sue intromissioni nella libera esistenza degli individui – anche e soprattutto nella sfera del mercato, la dimensione in cui l’uomo estrinseca la sua naturale attitudine alla socialità, alla collaborazione, al confronto e alla competizione con l’Altro. La libertà non è essa stessa il Bene; non è infatti esclusa l’eventualità che possa condurre al Male. Ma quest’ultimo non è che la violazione della sacralità della vita altrui, della sua proprietà e dunque della sua stessa libertà, secondo il già citato ammonimento di Rosmini.

La sensibilità cristiana è dunque intimamente liberale, se per liberalismo si intende innanzitutto l’avversione all’obbligazione politica  e all’aggressione istituzionalizzata incarnati dallo Stato. Chi professa il vero individualismo deve dunque dirsi credente? Valga per tutte la risposta del professor Bernardini: “Può anche darsi che Dio non esista. Ma i suoi pubblici negatori ne rafforzano infinitamente il nemico, più o meno consapevoli di questo. Il Diavolo esiste. E’ lo Stato”.

Le parole di Lottieri sono adamantine nel delineare il complesso rapporto fra la fede, i più puri aneliti liberali e la resistenza al potere dello Stato: “Molti avversano la religione perché avvertono come essa possa essere premessa all’avvento di ordinamenti illiberali: ed è vero che in numerosi casi il religioso si fa pura immanenza. Ma quando non si snatura, l’incontro tra la fede e il mondo può essere la premessa a un processo di resistenza di fronte alla legalità imposta. L’opporsi di Antigone a Creonte esprime la reazione della tradizione di fronte a un potere che la vuole sovvertire e di un diritto che si pensa come naturale contro una sua compiuta positivizzazione; ma quell’azione coraggiosa attesta anche il permanere di una dimensione religiosa entro un contesto che intende sbarazzarsi di tutto ciò. In questo senso, non si possono trascurare quelle esperienze della storia occidentale in cui la prima dissidenza nei riguardi della sovranità è venuta proprio da individui motivati da una fede intimamente vissuta. Dalla tardo-scolastica del diritto di resistenza fino alle più recenti battaglie per l’obiezione di coscienza, dalle dissidenze inglesi secentesche fino alle “chiese del silenzio” in lotta con i regimi totalitari del Novecento, spesso sono state proprio le comunità religiose a essere le realtà meno normalizzabili, i mondi vitali più determinati a tutelare la loro indipendenza di fronte al potere e ai suoi piani. Se il processo al cuore della modernità ha progressivamente secolarizzato la società e sacralizzato il potere, quanti si oppongo a tale evoluzione sono allora chiamati a riconoscere la dimensione metafisica dell’Altro e, al tempo stesso, a operare una de-mitizzazione dell’ordine legale”.

Dal passo emergono i punti fondamentali finora trattati, e segnatamente la vicinanza della fede alla sensibilità liberale e alla resistenza all’oppressione politica, e di conseguenza la sua siderale distanza dagli ideali socialisti, che sono una delle più sornione ideologie mistificanti e mitizzanti poste a tutela del potere.

Ciò nondimeno, è possibile leggere fra le righe di Lottieri un ulteriore spunto di riflessione, che apre vasti universi di analisi e con cui vorrei concludere questo contributo, per l’importanza vitale che chi scrive gli attribuisce.

Si accenna nell’ultimo periodo alla modernità, imperniata sulla secolarizzazione della società e sulla sacralizzazione dello Stato e del potere civile. Weber ritrova giustappunto i caratteri fondanti del mondo moderno nella razionalizzazione e nella secolarizzazione, due processi quant’altri mai interdipendenti, strettamente correlati ed entrambi “effetti non intenzionali” dell’onda lunga dell’etica protestante.

Al di là delle imprecisioni storiche testé rilevate, non v’è dubbio che l’analisi weberiana colga elementi essenziali della modernità, determinandone correttamente il nesso causale con un processo legato a doppio filo all’emergere delle sette riformate. In effetti la modernità può dirsi il prodotto maturo di un processo le cui tappe sono il Rinascimento, la Riforma protestante, l’Illuminismo e la Rivoluzione francese. Lo spirito del capitalismo è dunque pervicacemente incastonato in questo preciso ritratto della modernità – meglio sarebbe infatti riferirsi al capitalismo nella sua versione “moderna”. Il precipitato di questo fenomeno – di questo trittico composto da capitalismo industriale, liberalismo protestante ottocentesco e morale laicaè forse la liberazione dell’individuo dalle catene dell’oppressione? La vulgata whig delinea un’ascesi condotta attraverso la liberalizzazione della cultura (Rinascimento), della religione (Riforma), della Ragione umana (Illuminismo) e dell’individuo come portatore di diritti (Rivoluzione francese, rivoluzione liberali dell’Ottocento).

Se tuttavia osserviamo attentamente il prodotto di questo cammino di “modernizzazione”, non possiamo non vederne le dinamiche più perverse: qualcosa di intimamente corrotto deve insomma aver condotto da Machiavelli ai moti rivoluzionari, da Bismarck ai totalitarismi del Novecento, dall’affermarsi del “liberalismo” ottocentesco al trionfo indomabile dello Stato.

La questione è di grande portata e di difficile risoluzione, ma bastino alcuni riferimenti ad insinuare il dubbio. Forse non è merito della modernità quello di aver liberato gli individui dalla superstizione, dall’oscurantismo medievale, dall’anarchia feudale e dall’ignoranza cui un clero negletto e un’aristocrazia egoista li avevano condannati. E’ probabile che l’idea stessa di diritti soggettivi – cardini di quella libertà individuale che andiamo ricercando – non sia il prodotto del nominalismo filosofico, dell’individualismo calvinista, del relativismo dei valori e del capitalismo industriale di matrice puritana; un capitalismo peraltro storicamente vicino a velleità burocratiche e ad influenze stataliste non trascurabili.

Di tale capitalismo moderno e puritano Zanotto parla in questi termini: “L’ascetismo di cui tale concezione religiosa era pervasa […] avrebbe prodotto non tanto il fenomeno noto come “economia di mercato”, quanto piuttosto il rifiuto della sua versione catallattica – tipica dell’epoca medievale […] – per sostituirla con la sua evoluzione burocratico-edonista – affermatasi durante l’età moderna, industriale e post-industriale – il cui elemento caratterizzante sarebbe stato quello dello sfruttamento del perdente. L’imprenditore puritano “più diventa ricco, più si conferma nella predestinazione… e forse […] inizia a sfruttare quei miserabili chiaramente “predestinati alla dannazione”: nasce così quella classe che Marx chiamerà “proletariato” [viene qui citato il professor Giorgio Faro, n.d.r.]”.

Questa la versione calvinista-puritana dell’individualismo liberale. L’individualismo autentico – umano e non selvaggio, direbbe Rothbard; in fondo più vicino a Locke che non a Hobbes –  potrebbe semmai essere il degno erede dell’elaborazione concettuale e giurisprudenziale dei canonisti medievali del XIII secolo e dei più acuti esponenti della Scolastica: sarebbe insomma figlio legittimo del cattolicesimo e dell’assolutismo dei valori. Si critica sovente la Chiesa cattolica per la sua strenua opposizione alla modernità: è invece il caso di temere che essa stia dalla parte giusta.

Letture consigliate

BERNARDINI PAOLO L., Minima Libertaria (Leonardo Facco Editore, 2011)
CARBONE FRANCESCO, A scuola di economia (USEMLAB, 2012)
LOTTIERI CARLO, Credere nello Stato? (Rubbettino, 2011)
LOTTIERI CARLO, Un credente non può amare il potere dello Stato e la sua violenza (2012)
ROTHBARD MURRAY N., Contro Adam Smith (IBL – Rubbettino – Leonardo Facco, 2007)
ROTHBARD MURRAY N., Diritto, natura e ragione (Rubbettino, 2004)
WEBER MAX, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (RCS Libri, 1997)
ZANOTTO PAOLO, Cattolicesimo, protestantesimo e capitalismo (IBL – Rubbettino – Leonardo Facco, 2005)

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